19 dicembre 2018

Nuove Frontiere del Brutto



Seppur con una redazione oramai inattiva, anche perché ridotta sotto i minimi termini, non riusciamo però ad esimerci dal dare questa notizia. E non solo perché parla di una bruttura, ma veramente VERAMENTE brutta, ma perché pure operazione nauseabondamente osnoblotica nel suo essere in salsa sinestetica. Stiamo parlando dello sconcertante "albero di natale elettronico" della Oppo in p.zza XXIV Maggio a Milano.

Una triste struttura che deturpa il già non eccezionale nuovo design della darsena voluto per l'evento "epitome di osnoblosi" chiamato Expo 2015. Una specie di catafalco di tubi innocenti goffamente ricoperto di pannelli led a scimmiottare un improbabile abete elettronico, con qualsiasi logo Oppo (nome già di per sé non esaltante) a fare da stella cometa. Ai suoi piedi una stanca e infreddolita hostess vestita da Babbo Natale e un tizio forse della sicurezza, ti fotografano e chiedono l'email per partecipare all'ennesimo anonimo concorso finalizzato al solo scopo di carpire dati personali. Vuol sembrare un'installazione pseudo-artistica di tipo sinestetico, con la possibilità di entrare al suo interno e ADDIRITTURA usufruire di una connessione wi-fi, per questo autodefinito "smart". In realtà dopo un paio di spoglie rampe di scale in alluminio si gode giusto di una mediocre visuale sul circondario da 5-6 modesti metri di altezza.

Va beh, uno può pensare, ma perché lamentarsi? Di brutture a Milano ce ne sono tante, alla fine non può essere peggiore di molte altre, no? No, è peggiore di altre e vi spieghiamo perché:
- Non bisognerebbe mai abituarsi al brutto, perché chi lo tollera alla fine lo merita
- non è arte ma bieco marketing, e già questo fa girare le scatole
- si sovrappone alla nostra ricerca, cioè si definisce smart, ovvero tecnologico e interattivo, quando la tecnologia è modesta e l'interattività nulla
- non è gratuito: nell'accedere a questa mediocre esperienza chiedono email personale e foto (si può rifiutare, ma per stanchezza o forse per perplessità non si rifiuta).
- insomma si tratta dell'ennesima trappola osnoblotica per gonzi tra l'altro incomprensibile (qual è il messaggio: Oppo, che dovrebbe fare cellulari, concilia tecnologia e Natale? Mah...), con soprammercato di deturpazione di panorama

Nel cercare di arginare il nostro sconcerto, non possiamo però fare a meno di qualche considerazione. Noi come blog Technesya esistiamo da almeno 7 anni e da allora propugnamo una nuova estetica che abbiamo cercato di descrivere qui nel migliore dei modi. Ora... non solo siamo stati totalmente ignorati dalle istituzioni ma, come abbiamo più volte dimostrato, certe parti della nostra ricerca sono state copiate e/o imitate da operatori senza scrupoli, e ovviamente male, perché prive del sostrato teorico che le supporti.

Interpellate nel merito, le summenzionate "autorità" hanno lamentato croniche carenze di finanziamenti, ma... 1) le sedicenti opere dei famosi "amici degli amici" continuano ad essere finanziate senza incidere minimamente sulla storia estetico/artistica nazionale, 2) a non finanziare l'arte succede ciò che abbiamo testé descritto: questa viene scimmiottata dal marketing che cerca di utilizzarne le suggestioni ai suoi commerciali fini

Anche questa è la grande Milano: chi paga può. Un padrone di cane nn paga e se quest'ultimo fa la cacca sulla strada scatta la multa. Pazzesco, eppure non è una cacca piramidale e luminosa.

3 ottobre 2018

Silence, ovvero della necessaria Mutantropia interiore


Ultimamente, nella vostra infinita misericordia, due sono le critiche ricorrenti con cui ci state un po' martellando in privato:
1) che il nostro blog da estetologico starebbe trasformandosi in uno di critica cinematografica
2) che comunque riesce a comminare esclusivamente stroncature
Ora, dal momento che le critiche bruciano ma se vi scomodate a farle un fondo di verità devono pur averlo, ci premuniamo a rispondere che sì, è vero, ultimamente abbiamo dato alla critica cinematografica - arte secondo alcuni fuori fuoco - una certa predominanza. Ma ciò è avvenuto solo perché la redazione, che era il nucleo propulsivo e poietico del gruppo, praticamente non esiste più e quei pochi contributi li scrive quasi solo l'esperto in cinema. Arte che comunque non è poi così fuori fuoco, e per il suo essere multimediale (immagine e suono), la prima grande arte multimediale tecnologicamente connotata (il teatro o il balletto non lo sono, almeno non in tal misura), e per l'impressionante capacità di impatto emotivo che hanno le sue opere, quindi potenzialmente dal grande valore mutantrogenico. E poi, volete forse negare che Your Name fosse una patacca sentimentale adolescenziale? O che Blade Runner 2049, opera decisamente migliore, ma alla fine si risolvesse in un gioco di specchi finto-mutantropico di illusorie e irrealistiche "coscienze" cyber? O ancora che Il dott. Parnassus, forse l'opera col maggior potenziale sinestesico da noi esaminata, alla fine però si sia rivelata confusa e inconcludente? O, forse peggio, che The Young Pope di Sorrentino fosse, per essere gentili, quantomeno sopravvalutato per intrinseca insufficienza autoriale?
Chi altri oltre a noi ha affermato queste cose? Vorreste negarci la capacità - almeno quella - di andare controcorrente nel tentativo di informare su ciò che si tace?

Nondimeno accusiamo il colpo e, va bene, se proprio volete che la finiamo lì allora chiudiamo questa nostra carrellata cinematografica (ma fatta non solo per amore del cinema, bensì per esporre applicazioni pratiche delle categorie mutantropologiche) recensendo un capolavoro: Silence, film del 2016 di Martin Scorsese, ma tratto dall'eccellente romanzo Silenzio del giapponese Shūsaku Endō, scomparso nel 1996. Lo abbiamo definito capolavoro anche se non tutto ha incontrato il nostro gusto: ad esempio certo senso di sorpresa l'abbiamo trovato forzato, certe apparenze che poi non si sono rivelate reali per gioco cinematografico, nemici che si rivelano amici in tempi non realistici o viceversa (in realtà per il viceversa i tempi erano decisamente più realistici). Poi certo, riconosciamo che questi trucchetti siano necessari non tanto a tenere desta l'attenzione, ma soprattutto a rendere l'effetto psicologico dei molteplici errori interpretativi in cui incorre sistematicamente un occidentale nella terra del Sol Levante, e vi garantiamo che chi scrive ne sa qualcosa! ;)

Per il resto sì, il film è un capolavoro, perché alla sua luce tutta la teoria mutantropologica esposta in questo blog assume un altro significato, che forse è quello ultimativo e reale. E non solo per la sapiente mano registica (da quanto non vedevamo Scorsese tanto ispirato?), non solo per la stordente bellezza della fotografia, e non solo per l'indiscutibile perizia degli attori coinvolti, che siano occidentali o giapponesi. Ma soprattutto per la capacità di scrittura dei due autori Jay Cocks e lo stesso Scorsese, intellettuali e uomini di cuore capaci di enfatizzare in modo profondo e pieno la portata dei simboli evocati, facendo fare al nostrano Sorrentino la figura del guitto di provincia borioso e cannaiolo (non ce ne voglia l'interessato, di cui comunque rimaniamo fan ;). Il film, specie all'inizio, parla delle persecuzioni che i missionari cristiani (soprattutto gesuiti) e i loro convertiti locali dovettero subire nella prefettura di Nagasaki durante il XVII secolo. Poi però... lentamente, quasi impercettibilmente... la tematica cambia o, più esattamente, a quella delle persecuzioni se ne aggiunge un'altra che inevitabilmente prende il sopravvento, necessaria a comprendere il finale e il senso generale dell'opera. Giudati dall'instabile alcolizzato Kichijiro, i due giovani gesuiti portoghesi Rodrigues e Garupe partono da Macao per le terre intorno a Nagasaki alla ricerca del loro maestro spirituale, padre Ferreira, calunniato (secondo loro) addirittura di apostasia (da loro chiamata, secondo noi impropriamente, abiura) e di condurre uno stile di vita giapponese, addirittura more uxorio con una donna locale! I due vengono calorosamente accolti da miserrime popolazioni di pescatori e, ricolmi di mistico fervore missionario, officiano culto e battezzano a man bassa, facendosi amare dalle sparute comunità cristiane terrorizzate dalle persecuzioni.

Ora... ricordate cosa affermammo a proposito di fanatismo nel post L'Ego e i suoi Appetiti, di cui raccomandiamo fortemente la lettura? "Il vero egonanista si definisce per l'aggiunta di concupiscenze proprie. L'immobilista che non le ha, cioè applica tecniche osnoblotiche per perseguire un "bene esterno" o concupiscenze altrui, è la figura più vicina a quanto si potrebbe definire un fanatico", definendo così l'osnoblotico immobilista che, incurante dell'ambiente e di culture estranee alla sua, impone il suo sistema di valori come verità assoluta. Ed è questa piega che, sorprendentemente, comincia a prendere il film. Perché certo, ci sono le persecuzioni, c'è il male dell'uomo sull'uomo, ci sono quindi inevitabili conseguenze karmiche (la più brutta battuta che abbiamo sentito da astanti è stata: «ah, è successo a Nagasaki? allora se la sono voluta!»
), ma il film giustamente vuole evitare giudizi affrettati e manicheisti. Se il male sembra chiaramente da una parte, non è che nell'altra alberghi solo il "bene". Anzi. Certo, in quanto ciò giustifichi la prima è tema di aperto dibattito.

Infatti i due protagonisti, immediatamente dopo la prima ondata di gratificazione dell'ego, si rivelano presto goffi e talvolta addirittura meschini, incapaci di sostenere emotivamente le prove che la missione richiede, oltre che incapaci proprio di portarla a termine (trovano solo un anziano che abbia mai sentito parlare di padre Ferreira, che però se ne va perplesso senza esser stato di nessun aiuto). Per carità, non sono cattivi o malintenzionati, anzi sono due bravissimi ragazzi ricolmi di misticismo e (si diceva) fervore missionario, il che dal loro punto di vista equivale a dire "volontà di far del bene", ma è all'indurirsi delle condizioni e degli eventi che dimostrano impietosamente i limiti del loro stato d'anima, coltivato più sui libri in sicuri seminari europei che nel fango di difficili territori esotici. Quando viene offerto loro del cibo mangiano senza preghiera, quando scattano le persecuzioni non riescono a suggerire soluzioni efficaci, oscillanti fra atiquifobie e occasionali apatepofobie, anzi, quando avvengono le prime esecuzioni assistono impotenti al martirio. Di più: quando a loro volta vengono catturati si comportano in modo nevrotico e in preda al panico, lasciando perplessi i loro compagni di prigionia locali ma cristianamente rassegnati. Però prima che ciò avvenga i due si separano, circondati dalla diffidenza e dal disprezzo dei nativi. Il film segue l'efebico ma irsuto "padre" Rodrigues, dei due quello che sembrava più propenso al cambiamento (aveva consigliato infatti ai fedeli locali, contro il parere dell'amico, di calpestare le immagini sacre pur di non incorrere nel martirio), nella sua sconcertante sequela di apateporie: la comunità da lui battezzata risulta dispersa, riincontra la guida Kichijiro, l'unico ad aver sputato sul crocifisso, solo per venirne poi tradito, viene quindi imprigionato e sottoposto a processi nei quali, nonostante la presenza di validissimi interpreti, non sembra mai cogliere veramente il punto della questione. Arriva persino a dimostrare di non conoscere l'identità del suo accusatore, il terribile e celeberrimo inquisitore Inoue Masa, fra l'ilarità dei presenti. Infine assiste impotente alla morte dell'amico Garupe. In questo il film illustra magistralmente il passaggio psicologio dall'atiquifobia all'apatepofobia, da noi descritto nel lontano 2012.

Ma forse ciò che maggiormente lo ferisce, sia pur fra le torture psicologiche e le strazianti punizioni fisiche e persino uccisoni che lo circondano, è l'atteggiamento di Kichijiro, preda di una sorta di dinamica mutantroposnoblotica tipica di certo cattolicesimo (e riportata anche da Sorrentino guarda caso nello stesso AD 2016), ovvero la continua oscillazione fra peccato e confessione, che altro effetto non sembra avere se non la reiterazione del primo. Kichijiro si giustifica piangendo la sua debolezza, la quale doveva risultare comica o intollerabile agli occhi apparentemente spietati dei suoi carcerieri, che lo usavano come grottesco (e forse controproducente) simbolo di continua abiura, ma per il nostro gesuita in ambasce diventa ulteriore causa di messa in discussione della propria fede. Ed ecco quindi il significato del silenzio, o forse dovremmo dire del Silenzio con l'S maiuscola. Certo, il silenzio a cui sono state ridotte le popolazioni cristiane native, ma anche il silenzio a cui vengono costretti i padri gesuiti, così come il silenzio di Dio alle loro preghiere, invocazioni e suppliche. Ma anche il silenzio terapeutico, quello necessario alla meditazione e alla presa di coscienza. Il silenzio forse condizione unica per... riuscire veramente a sentire la voce di Dio?

Ma la Mutantropia di Rodrigues comunque non sarà sufficiente, perché insufficiente è la sua reale capacità di comprensione, insufficiente il suo stato d'anima, o di coscienza se si preferisce. Infatti, dopo tutte le prove e constatata la sua stolida ostinazione, interpretata non come atto di fede ma come indifferenza ai dolori inflitti ai nativi, i suoi carcerieri decidono di sottoporlo all'apateporia suprema: l'incontro col Mutantropo per eccellenza, l'oggi "giapponese" padre Ferreira. Qui il ricordo corre ai metodi del Grande Fratello di Orwell dove la devianza, prima di essere sanzionata con la morte, viene corretta fino all'amore. Perché in fondo è il sentimento che conta, nella consapevolezza oscura che le cose prendono forma prima nell'astrale - nel mondo dei sentimenti e delle idee, o degli archetipi se vogliamo - e solo dopo nel fisico. Eppure... a cosa porta quest'incontro fra un allievo emaciato e annichilito, più volte vicino alla perdita del senno (e fors'anche della fede), e l'ex maestro più imbarazzato che empatico? Alla spiegazione della più inconfessabile delle verità, spesso inutilmente suggerita anche dai suoi carcerieri giapponesi, in special modo dall'interprete e dall'inquisitore stesso, capaci entrambi di esprimersi in un eccellente portoghese: che l'invasione dei missionari cristiani, ancorché pacifica, è stata ottusa e non rispettosa. Che il Giappone aveva già un suo sistema religioso, non solo complesso e profondo quanto quello cristiano, ma forse persino più evoluto. Che la dottrina giapponese (su questo punto sembrava insistere l'interprete in un precedente dialogo: «solo persone veramente ignoranti possono paragonare i nostri Buddha [o più esattamente Bodhisattva] a esseri mortali»), il cosiddetto Buddhismo Zen, o Chan in Cina, similmente al Taoismo cinese o al Vedanta indù, ovvero al Sufismo islamico o alla Kabbalah ebraica, punta alla realizzazione di ciò che noi chiamiamo Metantropo, ovvero uno stato che trascenda quello umano, tramite la dissoluzione delle illusioni materiali nella splendente Verità divina.

Insomma che questa Verità è uno stato di coscienza che matura interiormente tramite consapevolezza ed etica, pensiero e azione, non una dottrina che si può imporre mediante rituali e perdoni continui (la confessione indiscriminata, come la vendita di indulgenze, fu il peccato capitale del cattolicesimo agli occhi di tutte le discipline iniziatiche). Che quest'ultima pratica, dopo attenti studi, risulta incompatibile, anzi pericolosa per un "campo morfogenetico culturale" dove altri sono gli ideali di realizzazione umana, quindi spirituale, il tutto al di là di pur presenti e validissime ragioni geopolitiche. Infatti gli unici ceti dove ha attecchito erano quelli più umili e vessati, dove più che una spiritualità ha fatto breccia la speranza in un luogo "altro" (il "paraiso") senza violenza, vessazioni o tasse. Peggio: la dimostrazione di tutto ciò era stata nella sprezzante indifferenza che i padri gesuiti avevano sempre dimostrato nei confronti delle culture locali, ignorandone lingua e tradizioni, negandone la spiritualità senza assolutamente comprenderla, al contrario di ciò che avevano fatto i nativi. Gli occidentali avevano così imposto una verità minuscola che, sebbene basata su solide radici spirituali, secoli e secoli di osnoblosi e giochi di potere avevano drasticamente trasformato, oseremmo dire tradito, fino a renderla un feticcio inaccettabile. Verità quindi osnoblotica che, aggiungiamo noi (come tutti coloro che conoscono la storia), altrove era stata imposta ai popoli dominati con la violenza delle armi ogni volta che fu possibile farlo, tra le più drammatiche conseguenze.
Mentre sorge il sospetto che forse la Verità vera, quella con la V maiuscola, un tempo esistesse anche in seno al cristianesimo, ma già allora e da diversi secoli non ve n'era più memoria (in realtà gli stessi anni in cui è ambientato il film vedranno la nascita in Europa del movimento Rosacroce, ma questa è veramente un'altra storia).

Per il piccolo Mutantropo Rodrigues sì, si tratta dell'apateporia suprema. E sceglie anche lui la via mutantropica evolutiva, fermando il martirio e calpestando l'immagine sacra. In fondo, trattandosi di un'immagine, non è forse una semplice formalità, pubblica per giunta (cioè non interiore)? Ed ecco che improvvisamente le cose cambiano: assume identità e moglie giapponesi, ma anche le comunità locali vengono lasciate alla loro libertà di culto (in fondo il Buddhismo non era penetrato qualche secolo prima sovrapponendosi al preesistente Shintoismo?). Il rispetto per l'ambiente è quindi assicurato ma anche lui stesso, apprendiamo solo alla fine, aveva potuto mantenere il suo credo. Purché lo facesse interiormente, negando proselitismi pubblici e fuori luogo. Bensì, come ogni autentica verità dell'anima, appunto... nel silenzio.

11 agosto 2018

The Young Pope, o dell'inutile banalità del bene


Ovvero: il cinema come catarsi dell'ego.


Da buoni ultimi ci mettiamo anche noi a parlare di The Young Pope, la tanto discussa serie televisiva di Paolo Sorrentino, regista e autore che più volte ha risvegliato il nostro interesse. Certo, non tutto il suo cinema ci convince: troppi i dialoghi stranianti (persone che si parlano con aria sospesa e guardando altrove), troppi i ritmi lenti e autocompiaciuti, troppi i momenti di esaltazione adolescenziale, ma con essi anche tanta profondità e coraggio autoriale, cosa ormai scomparsa in questi tempi di pavido conformismo. E ne parliamo per dire un concetto fondamentale: tanto rumore per poco o nulla. Ma vogliamo essere molto chiari! (cit. ;) l'opera in questione è tutt'altro che mal riuscita o trascurabile, dotata com'è di interessantissimi spunti di riflessione. Purtroppo però, come avemmo modo di dire per Il Dottor Parnassus dell'una volta grande Terry Glliam, non bisognerebbe mai parlare di argomenti che esondano le proprie capacità intellettuali o anche solo il proprio campo di esperienza. Si rischia di risvegliare inutilmente giganti fuori portata o, addirittura, svilire concetti degni di miglior sorte.

Ma... come ormai è nostra abitudine di excusatio non petita, giustifichiamoci: perché parliamo di quest'opera bisensoriale (vista e udito) a puntate? Sostanzialmente per tre ragioni:
- è un'occasione più unica che rara di fiction televisiva nazionale con una produzione di alto standard internazionale
- parla di un una personalità a dir poco problematica che va incontro a un processo mutantropico per "sinestesia"
- parla potenzialmente di materie spirituali, e nell'intenzione degli autori anche praticamente, lo vedremo
Eppure... qualcosa non va come avrebbe potuto. Ma andiamo con ordine.

1) Superproduzione di alto standard: insomma finalmente il mezzo bisensoriale per eccellenza, quello televisivo (dopo quelli teatrale e cinematografico e prima di quello telematico), viene messo al servizio di una storia di evoluzione umana, quindi Mutantropico-evolutiva, e apparentemente per vie quantomeno sinestetiche, vista la peculiarità dell'esperienza narrata: uomo problematico e tabagista in sinestesia vaticana. Finalmente si mettono in gioco etica, conversione, illuminazione, estasi, insomma le vie dello Spirito (nella sua prima omelia il protagonista ebbe a dire: "tutti noi siamo soli davanti a Dio, non vi indicheremo nessuna strada, cercatela voi, trovatela!"), e finalmente liberi da fiction su carabinieri e guardapesca. Eccellente il cast, bravo (come sempre) ma sottoutilizzato Stefano Accorsi, incontenibile Silvio Orlando, un superbo segretario di stato vaticano ben oltre la macchietta che è stato accusato di essere, stupefacente e diabolico il mattatore (oltre che occasionale co-produttore) Jude Law nella straordinaria interpretazione di Lenny (un omaggio al leader dei Motorhead, c'era bisogno di dirlo?) Belardo, ovvero Pio XIII, un giovane papa che si pone all'opposto dell'attuale Francesco, o forse più esattamente di Giovanni Paolo II. Tanto questo era innovatore, sorridente e aperto, quanto lui, papa di diversi anni più giovane, è conservatore, sprezzante e chiuso fino alla paranoia.
È poi sopraffina la ricerca musicale con prelibatezze elettroniche, quando non chicche rinomate nell'underground (I Can't Escape Myself dei mitici Sound) o magari sconosciute nonostante l'indiscusso valore (Senza un Perché della stupefacente Nada). E infine, sempre finalmente, vediamo la volontà - oltre che la capacità intellettuale - non solo di stupire (scopo in sé osnoblotico, ricordiamolo) ma anche di mettere in discussione l'istituzione pontificia senza tuttavia mancarle di rispetto. Anche, come dire? con argomentazioni chiare, condivisibili, legate ai più elementari diritti umani.

2) Una personalità a dir poco problematica in mutamento: più esattamente un nevrotico schizoide ed egopatico, ovviamente conservatore al parossismo, iracondo e pure tabagista, tematica che sin da This Must Be the Place Sorrentino connette al processo di crescita. L'atteggiamento schizofrenico dapprincipio urta un po' i nervi, poi ci si rende conto che fa parte della "complessità del personaggio". Come lui stesso ammette egli è duplice, molteplice, contraddittorio "come Dio uno e trino, come la Madonna vergine e madre, come l'uomo buono e cattivo". Santo ed empio allo stesso tempo, insomma, nondimeno questa "complessità" suona in qualche modo falsa e fine a se stessa: il protagonista fatica ad accettare l'inevitabile. È Mutantropo, sì, ma passando per il dolore e il sangue (altrui ovviamente) comunque compie un processo molto parziale e non manca una gaffe degna di un Asperger all'ultima puntata. Ci si chiede però come abbia fatto fino a quel momento nella vita normale, già di per sé più che sufficientemente "sinestetica". Un matto che viene assalito da egopatia dittatoriale di colpo solo con l'ascensione al soglio pontificio, vista soprattutto l'autoconsapevolezza di bellezza e fascino della sua persona, sembra davvero poco credibile. Gli autori provano a giustificare questa stranezza con l'astio che proverebbe un bambino incomprensibilmente (per lui) abbandonato dai genitori, ma davvero non si comprende come ciò possa costituire causa scatenante di follia (certo, di egopatia sì) a prescindere dal salire il soglio. Inoltre, grazie all'abile regia di Sorrentino, viene sottolineta la portata sinestetica di una vita in Vaticano, secondo le parole di suor Mary (madre surrogata) "città-stato piena di anime perdute che non hanno mai vissuto" (acc, alla faccia della sinestesia!), esperienze si suppone connotate di Sacro, eppure nn ci risulta che quei luoghi abbiano potuto porre freno alle follie egopatiche di tanti, troppi, detentori del titolo più alto della chiesa sedicente cristiana e "universale" (katholikòs), fatte ovvimente salve le meritevoli eccezioni.

3) Materie (solo) potenzialmente spirituali: forse il punto per noi più fallimentare del progetto, a parte la morale intrinseca cui accenneremo dopo. In questa lunga serie (10 ore!!!) si parla di conversioni, illuminazioni, contatti con il sacro, oltre che di intensa preghiera, ma nei fatti trasudano ben poche verità spirituali, oseremmo dire quasi nessuna. L'anziano - diremmo decrepito - card. Caltanissetta che si chiede "la domanda oggi non è se Dio esista, ma perché dipendiamo da lui" può bastare? Certo che no. Però verità dottrinali ne sentiamo diverse e ne ringraziamo il prof. Melloni che avemmo modo di apprezzare al festival Sublimar di Milano, qui consulente alla sceneggiatura, chiedendoci al contempo se si sia contento di ciò che ha fatto. Una di queste, forse meno discutibile di altre, è la preghiera, o almeno la sua modalità, che per il nostro dev'essere in latino. Ma quando esige che essa si avveri allora la declama in italiano, infervorandosi fino all'indignazione ed arrivando ad esigere alla divinità (dall'Altissimo fino alla Beata Vergine) con un'insistenza aggressiva, un'autoritarismo oseremmo dire padronale, come con una serva o poco ci manca. Con questo simpatico ed evidentemente efficientissimo artifizio diviene papa, ponendosi all'opposto dello schivo protagonista del capolavoro Habemus Papam di Moretti. Ecco che la preghera si avvera, avviene il miracolo, il Papa è santo! 

No, giusto per dire qual è il livello... 

Certo, in compenso emergono verità psicologiche, ma forse spicciole e un po' scontate: il senso di rivalsa dell'infante abbandonato, i genitori surrogati, ovvero prima la madre (la già citata suor Mary) e poi il padre (il card. Spencer, che lo accusa di volere da lui solo l'approvazione dei suoi errori, come ogni figlio chiede a suo padre), infine il "pari" Gutierrez, quando Lenny diventa padre - anche lui, manco a dirlo, simbolico ovvero surrogato - del piccolo Pio, "figlio" della sua preghiera perentoria. Bellissimo il dialogo con l'amico d'infanzia Dussolier: "Lenny, quando crescerai?", e lui "mai, perché noi preti non possiamo diventare padri (falso! il prete fa voto di celibato, non di castità, ma va beh...) e questo ci condanna a rimanere per sempre figli". Per il resto, nel nome della sua oramai sdoganata "compelssità", lui si comporta da perfetto cattolico peccando in modo smodato e pentendosi disperatamente a rotazione, alternando trasgressione e confessione, addirittura ateismo (o almeno agnosticismo) e fervente misticismo. Vista da altri punti di vista, in un nostro post avemmo modo di chiamare un simile fenomeno dinamica mutantroposnoblotica, e in quest'opera i "vantaggi dell'egonanismo" certo non mancano, anzi.

Insomma, in una fantasmagorica sequenza di immagini come giustamente solo lui sa fare, Sorrentino suscita in noi dapprima i più importanti enigmi esistenziali, questioni di coscienza assai raramente affrontate nella ficion seriale ad alto consumo: cosa succede se si scontra l'ego con Dio? Ha senso ribellarsi all'Altissimo o alla sua Via (o Tao), arrivando a sfidarlo a voce alta, certi di non fare la fine di Lucifero? Il dominio spietato ed esclusivamente utilitarista dell'uomo sull'uomo (oltre che su simboli sacri o di potenza che lo circondano) ha conseguenze? La chiesa ha davvero il diritto di chiudersi e mostrare ostilità al mondo, e così il suo più alto grado di rinunciare al ruolo di "pontifex", o costruttore di ponti col Sacro? E, ultimo ma non da meno, come cambia la personalità di fronte ad apateporie devastanti e responsabilità ingestibili? C'è di tutto: la coscienza-ego, la sacra dottrina, l'influenzamento spirituale (forse addirittura iniziatico?), l'etica sulla via del Karma, la Mutantropia. Ci sono addirittura le apateporie, segnatamente nelle puntate 6 e 7, che guarda caso innescano il processo mutantropico (ma va? chi l'avrebbe mai detto?) però, proseguendo, il buon Sorrentino non sembra all'altezza della sua provocazione. La Chiesa stessa come istituzione, come ha giustamente fatto notare persino l'Osservatore Romano, non viene mai messa in discussione. Cosa forse anche giusta, ma c'è differenza fra consapevolezza di una necessità socio-antropologica e giustificazione dei misfatti della medesima (per carità, esclusa la pedofilia, tema fondamentale delle ultime due puntate ma secondo noi usato in modo più emotivo/strumentale che profondo). I progressi del nostro eroe sono errabondi e incerti, con molto dolore e molti passi falsi e poche ancorché semplici e banali prese di coscienza, cosa anch'essa in sé giusta, ma c'è differenza fra seria dedizione ad acquisire stati superiori di coscienza e occasionale passeggiata nella consapevolezza data dal dolore provocato da una cavolata (segnatamente due morti accidentali e una - suor Antonia - addirittura provocata con la preghiera, per tacere di ciò che è avvenuto al "mistico" pecoraio Tonino Pettola).

Il tutto per cosa? Lungi dall'essere diventato un Metantropo, il "santo" incarnato, santo per via dei due miracoli imperiosi, ha raggiunto la coscienza più o meno della brava persona (del rapporto fra banalità e sorriso si espresse bene il card. Aguirre, piacere di Dio ;) capace addirittura di stati di (normalissima) empatia col suo prossimo. Un absurdum, la normale evoluzione umana di ogni adolescente bizzoso e nella norma senza essere responsabili della morte di alcuno, al limite di qualche dolore. No, potreste obiettare, è importante anzi fondamentale il potere! Secondo noi no, ma quand'anche fosse e visto che, come abbiamo dimostrato, Dio non c'entra più gran che, allora sarebbe stata sufficiente la storia di un Kim Jong-un qualsiasi, di un dittatorucolo più o meno giovanile dei tanti luoghi di dolore del mondo, senza bisogno di scomodare santi e madonne. Secondo noi in quest'opera il "potere" è solo disponibilità di mezzi dell'adolescente bizzoso, e ogni adolescente in fondo ha i suoi, insomma il livello geopolitico è estraneo a quest'opera o almeno alla sua comprensione o giustificazione. Oppure si potrebbe obiettare che noi non capiamo lo status tragico di un Mutantropo mancato, ma il film alla fine non riesce nemmeno ad essere questo o lo è in modo piuttosto superficiale. Al di là delle possibilità che dava l'ambiente, ignorate o banalizzate quando non minimizzate/svilite (sembrerebbe non comprese), alla fine un pazzoide non è un uomo nel pieno delle sue facoltà mentali, quindi moralmente giudicabile, bensì un essere in qualche modo deresponsabilizzato, devastato dai suoi dolori. Insomma un uomo che arriva a ciò che arriva, nn si può pretendere troppo, e ciò inevitabilmente smorza il valore mutantropico delle sue piccole scelte, così come il suo autoritarismo folle sfuma quello drammatico di vittima.

Ma ciò che secondo noi è peggio è che insieme alla deriva spirituale il film ne prende una anche ideologica e davvero non riusciamo a capire quanto di questo l'autore ne sia cosciente. Cioè, certamente sì, nn pensiamo sia uno stupido, ma nn sappiamo quanto lo condivida o quanto vi ci sia stato costretto dalla produzione. Infatti il nostro eroe, che dovrebbe creare straniamento ma in realtà affascina, dopo aver "umiliato" il buon Stefano Accorsi al suo cameo come primo ministro della Repubblica Italiana di tipo renziano, ed essersene vantato, nota con piacere come sia riuscito ad arrestare o perlomeno a frenare l'iter parlamentare di certa normativa "progressista". Fra questa mette aborto, divorzio ed unioni di fatto, diritti inalienabili della persona. Il punto non è che un cattivo gioisca di una vittoria turpe, in effetti sarebbe coerentissimo col personaggio, ma è il fatto che tutti si complimentino e si congratulino con lui, anche persone appartentemente dalle posizioni ideologiche opposte, sembra quindi anche l'autore con loro.

Ecco quindi il senso della nostra critica, di un film tuttavia brillante, dagli spunti interessantissimi, fatto con intelligenza, maestria e abbondanza di mezzi. Ma sostanzialmente un'occasione persa. Un'occasione di dire finalmente la verità, non tanto sulla corrottissima istituzione Vaticano (cosa fors'anche troppo facile, comunque già egregiamente fatta da altri, in ogni caso distraente rispetto a quello che avrebbe potuto e dovuto essere il tema dell'opera), quanto sulle necessità, sulle possibilità ma anche sulle trappole che si nascondono dietro un cambiamento guidato da uno stato di coscienza a sua volta influenzato da simboli sacri. Insomma una sorta di Sinestesi nei fatti, cosa che alla fine può essere un cammino spirituale: le sfide che comporta, le profonde messe in discussione di sé, i relativi stati di coscienza, specie se alle prese con problemi di ego, tema tanto caro al film e al cinema di Sorrentino in genere. Perché, per citare il padre surrogato (e freudianamente morituro) Spencer, "il Mistero è una cosa seria, non certo una misera strategia di marketing!". Ci si accontenta però di una soap opera che indigna e diverte, spesso sorprende (più spesso, ahinoi, annoia), ipnotizzati dalla bellezza apollinea di Jude Law e da suo sorriso mefistofelico, che un po' scandalizza ma senza graffiare e un po' intrattiene dando da pensare, con poche "frasi sagge" tratte dalla letteratura dottrinale (segnatamente S. Agostino, e OVVIAMENTE nulla di non accettato da Santa Madre Chiesa come ad es il Tao-Te-King o, eresia!, i Vangeli Gnostici), buttate a occasionale coriandolo sul disorientato spettatore. Che al IX episodio svacca completamente in un sentimentalismo stucchevole, una sorta di apologia del volemose bbene, e infine si risolve con una tesi "positiva" tra il banale e il deludente (il "sorridete sempre") e una serie di negative (l'omosessualità è aberrazione, le coppie di fatto un male da evitare ad ogni costo, l'aborto un omicidio da anatema ecc) che, per quanto sommariamente finiscano per esser messe in luce negativa o perlomeno dubbia, nel frattempo lasciano interdetti.

Al confine fra arte e osnoblosi si muove l'ambiguo Sorrentino. Ma alla fine l'abbiamo capito: è lui l'adolescente bizzoso, perché è lui ad essere interessato al Mistero dello Spirito senza mai comprenderlo. E come in This Must Be the Place fa fumare l'immaturo che anela allo status di adulto, ma la banalità della sua parabola di vita porta all'estremo ripudio degli anziani genitori fricchettoni. E come in La Grande Bellezza vede nella spiritualità una mostruosità sostanzialmente estranea a sé, quindi perlomeno cinematograficamente incapace di salvare chicchessia. Ma allora... perché 10 ore di catarsi dell'ego? Non sa forse che un bel tacer non fu mai scritto, e forse neppure filmato (ma non possiamo esserne sicuri)?

23 aprile 2018

Forma e Sostanza (cit.): ovvero i GarageVentiNove al Fuorisalone


«I GarageVentiNove al Fuorisalone?» si chiederà qualcuno, «e che, i Technesya si sono ammattiti? Da quando recensiscono concerti rock - arte monosensoriale - piuttosto che eventi mondani?». Beh, a parte il fatto che il Fuorisalone non è esattamente un "evento mondano", bensì uno degli appuntamenti espositivi più importanti d'Italia, ma nemmeno quello dei GarageVentiNove è stato (solo) un concerto rock, indie d'autore per l'esattezza, ed entrambi gli eventi sono stati ricchi di sinestesia, come sinestetica o perlomeno sincronica è stata la loro compresenza venerdì sera a Milano.

Nulla da dire sul Fuorisalone, o Settimana del Design che dir si voglia, insieme al Salone del Mobile costituisce l'Evento nazionale con la "E" maiuscola, in grado di attirare folle da ogni dove e riempire tutti gli alberghi da Como a Lodi e da Novara a Bergamo. Il design come abbellitore del quotidiano sì, ma anche come contributo pratico alla fruibilità dell'oggetto, insomma alla sua ergonomia e usability, il tutto con grande impiego di ogni ben di techné. Tutti lavorano: gli alberghi sono pieni ma anche i ristoranti e i pub, i negozi (sì, anche quelli normalmente vuotini e moribondi) e i taxi (probabilmente anche gli Uber ma nn vorremmo girare il coltello...). Le piazze finalmente fioriscono di vita e musica, e una strana frenesia, un'insolita atmosfera di festa s'impossessa della città. 

La grande protagonista, si diceva, è la tecnologia. Abbiamo visto ogni sorta di programmazione - "internet delle cose" sembra essere la buffa e certo non nuova parola d'ordine - di illusione e fantasmagoria. In un modo che vive di immagini lavorare sulla percezione, in una sorta di realtà aumentata ma nel reale, cioè senza l'ausilio di visori speciali, struttura il reale stesso. Ci ha stupiti in tal senso soprattutto lo spazio della Sony, dove abbiamo visto ombre cambiare realtà e realtà cambiare ombre (sì, sembra più normale, ma vi garantiamo che così non è), tutte cose che... possono davvero tornare buone per una Sinestesopera. Non è che conoscete qualcuno che ce può mette 'na bona parola? ;)

Ma a fine giornata, diciamo così, resta un po' l'amaro in bocca. Tutta questa fatica, questa folla, questo delirio per l'ennesimo totem, sì perché è così che si celebra un totem, lascia sfibrati. E prende il sopravvento un senso di frivolo, perché in fondo il design di oggi l'anno prossimo - o fra due anni - non lo vorrà più nessuno. Si celebra quindi l'effimero, l'impermanente, quasi come la moda, anche se non in altrettanto abisso (almeno qui qualcosa di utile c'è). Rito collettivo divertente per un nutritissimo pubblico, in fondo lì a vedere una teoria infinita di varianti, incurante dei moniti sul rischio di perdersi fra le 10000 forme cui fa cenno il Tao ;) Il tutto per tacere dell'universo di vanità delle vanità e dinamiche psicologiche egoiche connesse, potete quindi comprendere a sera la spossatezza e la volontà di staccare e cambiare energia. Nel dettaglio abbiamo trovato il concerto dei GarageVentiNove sulla pagina fb Concerti Live Milano e Dintorni, che ringraziamo per l'encomiabile lavoro svolto ogni giorno.

Ed eccoci in un posto incredibile, sin dal nome: Aldo Dice 26x1, frase in codice che nel 1945 ha annunciato la liberazione dal nazifascismo (non lo sapevate, eh? ;). Centro sociale, oh no, residence sociale! insomma immobile occupato che svolge però una vera attività socialmente rilevante, come dare un tetto a chi non ce l'ha, spesso in accordo con quello che una volta si chiamava consiglio di zona. Il posto è bellissimo: un palazzo di sette piani praticamente nuovo e in ottimo stato, il piano terra allestito a sala ricreativa, con qualche caratteristica "decorativa" - intendiamo graffiti - tipica del centro sociale occupato, ma distribuito con parsimonia e in un sostanziale rispetto di una certa sobrietà. E mentre nei piani di sopra alloggiano 200 famiglie circa, sotto si svolgono spettacoli live in un'atmosfera variopinta e cordiale, fatta non solo dei personaggi "alternativi" tipici di simili luoghi, ma anche famiglie, donne con bambini, curiosi borghesi senza timori, in un continuum che oltre che abitativo e di supporto burocratico diviene anche culturale (e solo questo fatto grida sinestesia). Oggi si ritrova inspiegabilmente sotto sgombero a causa della miopia della proprietà (ci sembra... ministero delle attività produttive?) combinata con l'ipocrisia del Comune, che vuole il servizio ma nn paga il fio. Questa era la prima di una serie di serate live di sostegno.

I GarageVentiNove sono un quintetto di indie-rock italiano, altrove definiti "sorta di mito dell'underground milanese e varesino". Insomma ultraquarantenni veterani della scena alternativa, come tali appena stati protagonisti insieme a un'altra band mitica, i Dispoitivo Speciale d'Ascolto, di una serata-evento fondamentale di quest'inverno, denominata D'Introspezione ed Ombra e tenuta a dicembre presso il Legend Club. I 5 propongono una sorta di intensa canzone d'autore per due voci sessualmente alternate, chitarra distorta e sezione ritmica creativa. La cantante Patty è tra l'intellettuale di sinistra e la dark-lady, una voce bella, pulita e potente, mentre la voce maschile, Brian K, un emulo di Nick Cave con picchi alla Robert Smith, è un baritono vibrante e cavernoso. Ermanno suona la chitarra in modo molto originale, ricordando talvolta le distonie dei Sonic Youth o altre le rugosità colte dei CSI, mentre la sezione ritmica di Claudio (basso) e Ciccio (batteria), innova con fantasia (cosa sempre più rara da sentire in giro oggi) le modalità dello struggimento e dell'ipnosi. Saggi e alternati interventi di tastiera completano un sound complesso e molto d'atmosfera, che dà origine a brani incredibilmente coinvolgenti, a tratti nervosi oppure fatalisti, parenti (lontani) del post-punk ma sempre pronti a un'evoluzione, a una sorpresa. Le tematiche sono varie e scottanti: l'insegnamento di Hannah Arendt, i multistrati identitari, i cicli dei millenni, il lavacro nelle acque dell'anima. Poche cover ben inserite (abbiamo riconosciuto Cranberries, Cure e Massive Attack) hanno contribuito ad alleggerire e rendere più gradevole il tutto. 

Insomma un gruppo di rock d'autore che suona contro uno sgombero insensato, proponendo un progetto artistico originale e convincente in una cornice di impegno ed aiuto al prossimo. Non ancora Sinestesi ma serata quasi perfetta nel suo sapore di altri tempi, tempi in cui l'arte aveva altre responsabilità, in cui l'azione sociale aveva un altro senso, in cui il senso stesso di performance artistica andava ben oltre quello di show e anzi comportava il coinvolgimento della collettività in una sorta di moderno Tikkun Olam, miglioramento comune del mondo grazie a un'azione congiunta. Il contrasto con la vacuità del contemporaneo e contestuale Fuorisalone era palpabile: una sostanza pura forse incurante di certe forme (una grezza musica derivante dal post-punk in ambiente spartano-alternativo) contro la - per carità, nella pratica benvenuta - celebrazione della pura forma in fiera frivola dell'effimero. Come dire? Forma vs sostanza, mera visione vs vera azione. Altri, meno prosaicamente, direbbero la fede vs le opere ;)

O forse il Fuorisalone è bello anche e proprio per questo, cioè per la quantità e la varietà di proposta culturale che porta con sé, quindi la probabilità di incappare in qualcosa di tanto valido. Certo bisogna saper scegliere: c'è gente che la sera stessa è stata alla Fondazione Prada ipocritamente certa di aver coniugato cultura e costume (l'illusione del conformista), ed altri al terribile concerto di Nek, Max Pezzali e Renga, autolesionisti oltre ogni osnoblosi! 
:D :D :D

5 febbraio 2018

Rammarico per un capolavoro mancato: Parnassus



Una recensione in forma di trama (con total spoiler ;)

Su richiesta ma anche per assonanza con questo lavoro di Terry Gilliam, regista che abbiamo avuto modo di apprezzare a più riprese, recensiamo qui il film Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo, dell'ormai lontano 2009. E ciò non solo per il suo valore artistico ma soprattutto perché questo personaggio, un santo, un iniziato, uno psicoterapeuta immaginifico, utilizzava un sistema di esperienza sensoriale totale che comprendeva "sensi" altri e normalmente poco considerati, quali l'intuizione o ancora il senso del Karma, cui punterebbe anche l'opera che come estetica adotti la Sinestesi, o Sinestesopera.

Parnassus: l'incarnazione della poesia in un uomo, nel senso originario di ποιείν (poiein), fare, ma fare a livello animico e psichico (etimologicamente dovrebbe trattarsi dello stesso ambito), su se stessi e sugli altri. L'esperienza sensoriale più informazioni trasmette, ovvero più è sinestetica, più ci rende consapevoli delle nostre azioni, quindi responsabili, perché maggiormente coscienti delle dinamiche di causa-effetto in atto. Il sistema di valori viene messo alla prova, si opera una scelta e la Mutantropia ha modo di essere evolutiva. Idea quindi interessantissima per noi, eppure il film, capolavoro di fantasmagoria, ci ha lasciati perplessi in più di un'occasione. Forse non è facile spiegarne le cause, anche perché non siamo certi di aver capito tutto (pure Parnassus ebbe a dire "non si preoccupi se non capisce tutto immediatamente"), quindi proviamo a ripercorrerne i passaggi logici ricostruendo la trama non come la presenta il film ma riordinando in senso cronologico gli eventi. Lo spoiler sarà inevitabile, ma vogliamo ricostruire il senso di un'opera e l'adeguatezza ai suoi fini, non pubblicizzare alcunché.

Allora, se abbiamo capito bene, 2000 anni fa o giù di lì Parnassus era un monaco sapiente, una sorta di abate che in un monastero remotissimo insegnava e conduceva rituali e giaculatorie. Un brutto giorno arriva da lui addirittura il diavolo in persona (beato lui: a noi fa visita decisamente più spesso) e impersonato da Tom Waits, amichevolmente chiamato mr. Nick, che gli chiede di render conto delle sue azioni. Lui risponde di appartenere a un ordine il cui compito è narrare la Storia con la esse maiuscola, ovvero quella sacra, senza la quale l'universo intero non si reggerebbe in piedi. Al disprezzo del diavolo segue il suo azzittimento forzato di tutti i narratori e cantori, eppure... il fuoco continua a bruciare, la neve a cadere, il vento a soffiare, insomma il mondo prosegue com'è sempre stato. Mr. Nick ne ride ma consiglia loro, a mo' di consolazione, di darsi ad amene attività borghesi/conformiste quali lo shopping o la crociera, ma qui un rapace svolazzante lo imbratta a dovere. Il monaco comprende: la Storia la sta raccontando qualcun altro e altrove, sembra così aumentare il suo stato di coscienza.

Ma qui arrivano i primi problemi: il diavolo propone una scommessa, cosa normale e nelle sue prerogative, ma ci suona strano che un monaco accetti. Cosa può volere dal diavolo un uomo votato a Dio, un iniziato ai Misteri più arcani? Se è veramente vicino all'Altissimo, cosa può esserci che non abbia già o a cui non abbia scelto di rinunciare a suo tempo? Già ci sembra inspiegabile, a meno che il nostro non fosse un vero iniziato bensì un cantore di storie sacre qualsiasi, una specie di pappagallo di certi culti a sfondo mantramico. Ma in sovrappiù è la sua richiesta che ci lascia interdetti: vuole l'immortalità (la formula da lui utilizzata "la vita eterna" dimostra solo la totale incomprensione di questo concetto da parte dell'autore). Cioè, si lancia in una gara di salvataggio di anime - in numero simbolico di 12 - pur di poter vivere per sempre. A parte il fatto che è assurdo, perché nessun vero iniziato darebbe valore alla perpetuità indefinita del corpo fisico, ma entra anche in conflitto di interessi: vuoi salvare le anime o la tua forma terrena?

Eppure in questo eserizio salvifico lui rappresenta una religione fantasiosa, libera e responsabilizzante per l'adepto/iniziato - oseremmo chiamarla gnostica - (celebre la frase "non voleva governare il mondo, voleva che il mondo si governasse da sé"), mentre mr. Nick rappresentava quella violenta e dogmatica, dove il fedele era controllato (quindi deresponsabilizzato) col terrore e l'imposizione. Nonostante ciò Parnassus chiese l'immortalità come normalmente intesa. Non vogliamo qui giudicare una debolezza umana, non essendo noi meglio di nessuno, solo la consideriamo irragionevole, improbabile, incoerente col personaggio evocato. Il quale in ogni caso vince la sfida e diventa immortale, ma in seguito arriverà a comprendere che il diavolo l'ha semplicemente fatto vincere, perché sapeva che i tempi sarebbero cambiati e lui avrebbe perso consensi. Al di là del fatto che siano poco chiari i metodi di entrambi, evidentemente questa perdita di consensi ha stroncato il nostro, che con l'andare dei secoli e dei millenni diventa un barbone ubriacone completamente allo sbando. Non sembra nemmeno alla mercé di Nick, che quindi non si capisce a che scopo l'abbia fatto vincere, e che anzi lo ignora del tutto, infatti quando ha voluto rivederlo in occasione di un innamoramento violento e improvviso ha dovuto usare espedienti ai limiti della correttezza.

Ma alla fine, deduciamo dopo circa 1940 anni, i due s'incontrano ancora e questo secondo patto è tanto più chiaro quanto più semplice, e forse più spiegabile: distrutto dal fallimento della Verità Sacra (apateporia massima immaginabile) l'ex iniziato sprofonda in una spirale di degrado dalla quale pensa di potersi sollevare con l'amore terreno. Pur di avere questa donna scommette ciò che non ha, il figlio di quell'amore al 16° anno di età, altra follia nella quale non cadrebbe nemmeno un borghese di medio buon senso. Accordo raggiunto, torna giovane e addirittura mortale e conquista la ragazza, seppure non tutto sia perfetto. Probabilmente con lei deve aver pensato di portare in giro un baraccone ambulante, per quanto non se ne capisca il motivo, nella forma di un carrozzone fatto di nani (Percy, abbreviativo di Perceval come il cavaliere, un ex adepto del monastero col ruolo del grillo parlante) e ballerine e lustrini. Ma il cui pezzo forte era uno specchio magico: luogo incantato dove, grazie ai suoi potenti influssi psichici, la gente poteva vivere i propri desideri in senso immediato e comprensibile, una sorta di instant karma immaginifico e folle ma intelligibile, ad ogni causa un effetto, ad ogni scelta una ricompensa immediata. Il massimo livello possibile di sinestesia, anzi, scommettendo sull'imparzialità della mente di Parnassus, oseremmo dire di Sinestesi. In realtà non si capisce né come né quando né perché lo costruisca, ma tant'è, si tratta di un potentissimo strumento di terapia psicologica per via onirica.

L'amata moglie però muore di parto a 60 anni dando alla luce una figlia, Valentina (che inspiegabilmente non sarà consapevole del fatto). Con lei lui prosegue col suo carrozzone obsoleto e poco considerato da chicchessia, facendosi aiutare dal giovane di belle speranze Anton, abile attore oltre che intelligente esploratore del mondo oltre lo specchio. Questo infatti è tutt'altro che innocuo, perché finora si è trattato di flashback, ma il film si apre con la sparizione nello specchio di una persona - ok, un ubriaco molesto e arrogante - e qui non si capisce bene perché questo pazzo di Parnassus vada in giro con un potenziale simile e sia tanto facile per la gente entrarvi accidentalmente (divertentissima la storia del bambino salvato da Anton). Ma si avvicina il 16° anno di età della bellissima Valentina e il vecchio Nick viene a riscuotere. Parnassus non si arrende, vuol capire come uscirne e consultando i tarocchi pesca la carta dell'impiccato. Ecco che la sua ciurma salva un uomo appeso e moribondo che si rivelerà essere un misterioso smemorato senza nome. Valentina, colpita dalla sua avvenenza, si affretterà a chiamato George - "come san Giorgio", altro cavaliere e notorio uccisore di draghi - ma in seguito conosceremo il suo vero nome: Tony Shepard.

Quest'ultimo per un po' sarà il vero protagonista del film, ovvero quello cui sono affidate le principali scelte e riservato il principale svolgimento drammatico. All'inizio, da buon smemorato ma abile nel marketing, si rivelerà superbo nel risollevare le sorti del carrozzone ormai in rovina della compagnia (bellissima la sua frase "non devi aver paura dei cambiamenti"), attirandosi le ire di Anton la cui abilità sembrava poca cosa in confronto (il ragazzo si lascerà andare a episodi quasi violenti, di cui si pentirà amaramente). Inoltre George/Tony parte scettico sull'effettiva funzionalità dello specchio, ma si ritroverà a cambiare almeno due volte aspetto mano a mano che, con le esperienze sinestetiche che questo comportava, andava ritrovando se stesso. Nel frattempo Parnassus e Nick avranno formulato un'altra scommessa: se l'ex monaco porterà a sé 5 anime prima dell'altro avrà la figlia salva. Ma l'inquieta Valentina sta passando un periodo difficile della sua vita, l'adolescenza, turbata dall'avvenenza di George/Tony e dalle continue delusioni nei confronti del padre alcolizzato e fatalista. 

E anche qui qualcosa non torna: in fondo Parnassus ha sempre avuto ciò che desiderava, non si capisce per quale motivo sia così passivo nei confronti degli eventi e tanto rassegnato alla bottiglia. Infatti addirittura Nick si rivelerà migliore di lui non solo non approfittandosi della bella Valentina quando l'avrà fra le mani (ma in fondo lei non è sempre stata sua? non aveva ideali conformisti e non era l'unica a fumare oltre a lui?), ma ogni volta rilanciando la posta con Parnassus quando lo vede sfinito e rassegnato alla sconfitta. Infatti gli propone di aiutarlo a catturare il mutevole Tony, che non era un genio del marketing, bensì un essere tanto turpe e perverso da risultare inviso persino al diavolo! Costui risulta essere stato a capo di una finta fondazione per l'infanzia in realtà finalizzata al riciclo di denaro per conto della mafia russa, e addirittura alla vendita di organi di bambini. Infatti, in fuga nello specchio dai criminali d'oltrecortina, subirà un'altra trasformazione di aspetto, mancando per un soffio una nuova impiccagione, come una sorta di rituale suicida che ogni volta lo portava ad un rinnovamento di personalità, ogni mancata morte come una rinascita.

E qui, scusate, ma c'è la parte meno verosimile del film: com'è possibile che mr. Nick, nome fittizio del diavolo, cerchi di incastrare il più diabolico dei personaggi? Cioè... non solo ha un'etica nei confronti della bella Valentina non approfittandosene, non solo ne ha una nei confronti dell'ormai vecchio amico Parnassus concedendogli seconde chance dopo ogni sconfitta, ma per di più vuole uccidere proprio colui che nel nome del guadagno e del benessere materiale sembra il personaggio meno portato a una visione spirituale dell'esistenza (celebre la frase rivoltagli da Anton "non pensavo che avresti compreso... nemmeno fra un milione di anni"). Qui francamente non si capisce bene chi sia il diavolo, quali siano le sue prerogative e perché agisca così. Sembra più etico lui di Parnassus (ormai beone cronico e perduto che ha persino cacciato il grillo parlante nano) e sembra voler operare giustizia, quando a suo tempo non si fece scrupoli a distruggere la comunità religiosa, oltre all'equilibrio mentale, del suo vecchio - anzi decrepito - "amico". 

Il quale però, in un guizzo di motivazione (la salvezza della figlia) si rivela all'altezza della situazione: inganna Tony, rompendo l'efficacia del suo rito di suicidio e comportandone perciò la fine. Insomma inganna e uccide, altra cosa che veramente lascia perplessi, per quanto avvenuta su un villain. Il film finisce in modo mesto e forse sfoggiando l'unico valore veramente coerente che riesce a trasmettere: il vecchio Parnassus, ormai un clochard giramondo senza amici, senza più il carrozzone né lo specchio, prostrato a chiedere l'elemosina fra le stranianti vie di Vancouver, rivede Valentina. La segue e la spia nel suo incontrarsi con la famiglia al tavolo di un ristorante di design, in abiti borghesi, come covenzionale e borghese è il marito (forse Anton?) e tale il quadretto famigliare creato con lui. Alla finestra Parnassus incontra ancora il suo consigliere nano Percy, che giustamente lo consiglia di non disturbare questa figlia ai suoi e ai nostri occhi aberrante. Così, per rispetto, per amore. E così lui fa. Poi, nei saluti e nei sorrisi all'amico Nick, nel lavoro con l'amato Percy, il senso di una rinascita e di una ritrovata dignità. Insomma, tanta psichedelia e tanto spreco di risorse per dire alla fine che l'amore è rispetto, è distanza, è lasciar vivere l'altro secondo i suoi valori (per quanto vomitevolmente conformisti), costituendone solo l'esperienza l'unico valido limite, non lo sterile precetto. Finalmente realizza un ideale spirituale di cui non fu all'altezza nel tempo che fu, se solo fosse stato possibile capire meglio quale. 

Riassumendo: apprezziamo moltissimo il film nel suo immaginario, nella sua fantasmagoria, nel suo mettere appunto il potere dell'immaginazione su un piano elevato, spirituale, salvifico, cioè escatologico, responsabilizzando il soggetto che ne fa uso. Immaginazione che con lo specchio di Parnassus esce dal mondo delle idee e si fa esperienza di vita, ovvero Sinestesia nella sua più piena e compiuta espressione. E apprezziamo moltissimo la morale emotiva del film, ovvero la necessità di distanza e rispetto per chi si ama, per quanto aberranti ci appaiano le sue scelte. Inoltre è una delle poche opere in giro a fare un tentativo deosnoblotico, di smascheramento, sul mondo di falsità e ipocrisie che si cela dietro la beneficenza e l'umanitarismo sotto i riflettori in genere.

Ma non ne condividiamo l'insegnamento che vorrebbe essere elevato ma è solo pasticciato, approssimativo, più volte errato, insomma fuori dallo stato di coscienza in fondo strettamente intellettuale, o al limite "poetico", del suo autore. Nel dettaglio:
- il titolo: il buon Parnassus non ha mai voluto "ingannare il diavolo", ha solo creduto (quasi mutantropicamente) di poter ottenere qualcosa di buono dal loro accordo. Lungi da lui ingannare chicchessia, è stato però ingannato e turlupinato, insomma ha vissuto una serie di apateporie, ancorché apparentemente inutili
- Parnassus giovane è un personaggio incoerente, perché non se ne comprende l'identità: se ha uno stato di coscienza elevato non poteva scegliere l'immortalità come desiderio, se ne ha uno non evoluto non poteva essere tanto influente come "guru" spirituale, come avatar, né creare uno specchio di simile potenza
- è incredibile come una persona col suo destino pur di avere una donna al suo fianco "venda" addirittura la propria progenie. Davvero questo punto urta fin la sensibilità dell'uomo comune, strano non lo faccia a una personalità tanto evoluta
- non è chiaro come e quando abbia costruito il suo specchio, né perché sia così poco in grado di controllarlo, infatti più di una volta degli innocenti ci finiscono dentro con rischi di grave pregiudizio (il primissimo personaggio addirittura scompare)
- Mr. Nick sembra più etico di chiunque altro, specie di Parnassus. Insomma se è poco definita l'identità di quest'ultimo, non lo è meglio quella del diavolo. Non perché in un film non possa esistere un "diavolo buono", ma perché nessun'opera può essere basata sul continuo e arbitrario cambiamento di prerogative e attitudini di protagonista, antagonista e deuteragonista senza grave pregiudizio di ogni effetto di senso
- in ogni caso resta incomprensibile perché il diavolo in persona, tentatore e malfattore, voglia addirittura uccidere il personaggio più diabolico del film: Tony Shepard
- infatti con questi difetti viene pregiudicata non solo la comprensione del film, ma anche la sua stessa struttura, il suo linguaggio, poiché risulta poco chiaro se riguardi aspetti psicologici, morali, ludici, spirituali o sentimentali, in una sorta di insalata indistinta e irrisolta

Insomma un capolavoro mancato, e di molto, per stato di coscienza autoriale non all'altezza delle ambizioni, pur in abbondanza di mezzi. Ricordiamo un antico e sempre buon metodo di valutazione estetica: se non sai di cosa parlare, osserva gli scoiattoli nel tuo giardino o i gattini nel tuo cortile, senza scomodare diavoli e santi. Avrai tutti gli elementi per una buona storia ed avrai detto la verità.

8 gennaio 2018

Apateporia di Pinocchio (recensione di Blade Runner 2049)



Fra i pochi contatti che ancora abbiamo con il mondo esterno, più d'uno ci ha chiesto un commento sul recente film Blade Runner 2049, sequel dell'omonimo "capolavoro" del 1982. Così... più o meno dovremmo farlo perché tratterebbe di un'ipotesi di Mutantropia non privata, cioè personale, bensì sociale. Sì, è chiaro che il replicante non è esattamente un modello mutantropico, poiché essendo un robot, una macchina, esso si sostituisce all'uomo escludendolo dal processo mutantropico personale. Ovvero questo avviene indirettamente, perché la macchina ne permette uno sociale, cioè, come voleva Wallace - uno dei personaggi del film, il principale produttore di replicanti, un uomo che si crede Dio - la Mutantropia la vive una società che può affidare il lavoro bruto e sporco alle macchine. Prende forma così il sogno di una tecnologia che affranchi l'uomo dai doveri terreni dei lavori più faticosi e umilianti e gli permetta di dedicarsi alla cultura, alle arti liberali, agli aspetti più elevati dell'anima o comunque della dimensione psico-fisica umana. Che poi gli uomini facciano veramente così e non si diano invece al vizio più dissoluto è un altro paio di maniche...

Mutantropia sociale dalla tecnologia, quindi, vista come capace di migliorare la condizione umana migliorando la società e il suo ambiente con macchine, come i replicanti, la cui interazione con gli uomini dà origine ad esperienze sinestetiche, ulteriore aggancio alle nostre riflessioni. In fondo si tratta di un'opera d'arte quindi gli elementi per dire la nostra modesta opinione ci sarebbero tutti. Anche perché nel frattempo - guarda caso - ci è capitato di vedere il film e... diciamo sin da subito che ha suscitato in noi sentimenti contrastanti. Certo in parte, in buona parte, ci è piaciuto: specie l'immaginario visivo, questa continua carrellata di inquadrature fantasmagoriche e allucinatorie che lo pone all'altezza dei grandi visionari del cinema contemporaneo, da Terry Gilliam a Shymalan, non trascurando Ang Lee e il suo immaginifico Vita di Pi. Ci è piaciuto il suo... prescindere da, diremmo fregarsene delle ritmiche del cinema moderno, esattamente post-tarantiniano, e riimporre i tempi dilatati del cinema d'autore di una volta, citiamo Tarkovskij per tutti, tempi dilatati che sorprende vedere applicati in modo così sistematico.


In effetti la cosa che più ci è piaciuta è stata la tematica base dell'opera, la sua ambizione come significante. Il film altro non fa che rappresentare una sorta di Pinocchio futuribile, ovvero la macchina che acquista coscienza. A questa macchina, Joe - nome dato da un ologramma di cui era innamorato - o Agente K - nome dato dagli uomini - è stato detto dalla creatrice di ricordi che con essi, con i ricordi, noi acquisiamo coscienza delle cose, quindi una personalità, ma essi sono validi soprattutto se suffragati da un'emozione. Così questa macchina, attraverso esperienze emotivamente fortissime, forse le più forti mai immaginabili come il rapporto col padre e la sua salvezza, arriva a credere di essere un essere umano, generato, non creato. Sembra così acquisire una maggiore coscienza di sé, si direbbe quasi un'anima. Insomma, a dar retta alle intenzioni dell'opera e dei suoi autori, a una macchina basterebbe un'esperienza forte, ovvero "emotivamente coinvolgente" (virgolette d'obbligo, visto che non sapremmo definire le emozioni per una macchina, dal momento che sono difficilmente definibili anche per gli esseri umani, e le discordanze dei vari teorici in merito sono lì a ricordarcelo), per acquisire una coscienza umana, diventare così "uomo" e trapassare il limite invalicabile, il "muro" - così definito da Madame, il capo di K - tra i regni. Per passare cioè dal regno minerale al regno dei viventi e non solo, ma al più alto ed evoluto di essi, quello umano. Fino ad acquisire la componente più misteriosa, sconcerante e in fondo sconosciuta del regno umano: la coscienza, o per alcuni l'anima. Dimostrata nel finale (si perdoni lo spoiler) ancor più che dall'essere "pronto a morire per una giusta causa", cosa che è prerogativa dei robot almeno dai tempi di Asimov, dal suo misericordioso permettere al padre la verità sulla sua discendenza.


Detto questo, il film non ci è sembrato esente da limiti, alcuni dei quali oseremmo dire decisamente criticabili. Ad esempio certi passaggi logici restano inspiegati o incomprensibili, come ad esempio non si capisce perché proprio all'agente K sia stato innestato un ricordo realmente vissuto e/o se questa cosa c'entri alcunché col fatto che sia lui a trovare il cadavere di Rachael. Inoltre troppo spesso questi tempi lunghi diventano autocompiacenti, autoindulgenti, rovinando così inutilmente il ritmo di un'opera già appesantita da dialoghi sospesi, trasognati, fatti guardando altrove o nel vuoto, per noi da sempre segno di cattivo cinema (non ci permisero di apprezzare, ad es, il primo Sorrentino de Le Conseguenze dell'Amore). Ma i limiti maggiori purtroppo provengono dalla prima opera omonima del 1982, film anche da noi considerato capolavoro, ma per ben altre ragioni e ben altre capacità di approfondimento di aspetti "oscuri" dell'animo umano.  La prima volta che lo vedemmo, anche noi, con le nostre diverse vite ed esperienze, rimanemmo stregati dalla suggestione di quelle atmosfere sporche e decadenti, dallo struggimento di pseudo-coscienze attaccate alla vita, dall'impossibilità di non riconoscere alla bellissima replicante Rachael una dignità umana. Poi però... crescendo... approfondendo studi sull'essere umano, conoscendo l'etica e l'estetica cyberpunk dalla quale si è sviluppata la teoria mutantropica esposta in questo blog, ci divenne sempre più chiaro un limite di quell'opera. Questo perché essa non risolve il principale problema che pone, ovvero la risposta alle domande: cos'è l'esistere, cos'è la coscienza, cosa sono l'anima e l'identità. Le dà per ovvie e scontate: è umano il corpo che umano sembra e per dimostrarvelo lo poniamo in un futuro oggi, nel 1982, impensabile: il 2019, cioè l'anno prossimo. Vedete tante macchine autocoscienti in giro? Davvero siete i tipi che parlano col frigo del loro problemi? ;) Nessuna macchina intorno a noi lo è, men che meno grazie a ricordi o memorie di sorta: il pc con il quale stiamo scrivendo possiede memorie prodigiose, specie se paragonate a quelle di allora, eppure non dimostra la coscienza di un coleottero.


Ci dispiace che il cinema, arte rappresentata da forme di luce, quindi illusorie per loro stessa natura, sia particolarmente adatto a giustificare questa suggestione, questo malinteso, chiamiamolo così, quest'inganno, un cortocircuito sensi-mente per il quale un oggetto che possiede forma umana non può che condividerne i moti interiori. Non scordiamoci in proposito il segreto legame ai limiti del feticista fra Alberto Sordi e il robot con sembianze femminili di Io e Caterina, film profetico in questo senso. Infatti noi spettatori comuni non resistiamo a questa suggestione e volendola credere a tutti costi non riuscimmo a scandalizzarci del fatto che il buon Rick Deckard - superbamente interpretato da un Harrison Ford in forma smagliante - si innamorasse e intrattenesse intercorsi carnali (in senso figurato ovviamente, perché qui cos'è "carne" e cosa no è tutto da vedere ;) con quella che era poco più di una bambola gonfiabile solo un attimo evoluta. Anzi siamo pronti a riconoscere anima, ovvero coscienza di sé, sia a Joe/agente K di quest'ultimo film sia all'ologramma che egli ama, arrivando a giustificare un assurdo di secondo grado: un ologramma cosciente. Cioè nemmeno la forma fisica serve più, basta un'immagine di luce che la ricordi, come appunto fa il cinema. What's next? Non siamo noi a guardare il film, è il film che guarda noi? :D


Lui, Joe/K, è convinto di essere generato, è convinto di avere un padre, quest'ultimo è un Deckard invecchiato, acciaccato e stanco, che vive circondato da una foresta di silhouette femminili (dando ragione ai pochi che osarono dargli del feticista allora ;). Forse è anch'egli a sua volta un replicante: il sequel vuole gettare questo sospetto ancora più del primo film, che già lo adombrava. A sentire il demiurgo Wallace, infatti, Deckard non è altro che un replicante, non molto forte (negli scontri diretti le ha sempre prese), probabilmente uno dei primi modelli ma obbediente e impareggiabile nel dare la caccia ai suoi simili, oltre che programmato per amare Rachael a prima vista. Lui nega, sa distinguere "ciò che è reale", avocando questa capacità a discriminante di un'esistenza cosciente. Nondimeno la bambolona l'ha messa addirittura incinta! BUM, fandonia, assurdità! Eppure... noi, nella nostra sospensione di incredulità, siamo più disposti a credere che in futuro esisterà una tecnologia in grado di imitare la riproduzione sessuale umana, o anzi addirittura di replicare un essere umano dal solo sperma, piuttosto che credere che una macchina, il cui firmware è costituito di routine e algoritmi, possa avere una sorta anche solo lontana di coscienza autonoma e non imposta, imprevedibile. Insomma di anima.


Ci spiace per il burattino che, nonostante i suoi sforzi, non può trovare la sua anima (forse per questo si sdraia sotto la neve, composta di particelle fra loro scollegate come le emozioni di questo film?), non può trovarla nonostante le affermazioni altisonanti, diremmo roboanti, di chi asserisce l'esistenza di una sedicente "intelligenza artificiale" che in realtà deve sempre provenire da una reale, figuriamoci una coscienza di sé. Oggi questa sedicente intelligenza si limita a scimmiottare il dialogo umano e può ingannare solo una mente semplice (molto semplice) o a cui manca la stessa coscienza che vuole imitare, o ancora chi - come spessissimo accade fra gli esseri umani - desidera innanzitutto essere ingannato. Così l'opera inganna sul problema che crede di risolvere, anzi, che dà come già risolto dal mezzo, il cinema che lo fa di default, dando ragione alla celebre affermazione di McLuhan "il mezzo è il messaggio". Pinocchio conosce la sua apateporia perché nella realtà sarebbe destinato a capire a sue spese che lui, replicante conformista (come suo padre? ah no, non è suo padre! e forse nemmeno replicante: lui distingue il reale ;), è e resta solo un burattino. Ma Pinocchio è pure l'opera, perché in fondo ci dice una bugia, che forse questa recensione ha contribuito a smascherare.