3 ottobre 2018

Silence, ovvero della necessaria Mutantropia interiore


Ultimamente, nella vostra infinita misericordia, due sono le critiche ricorrenti con cui ci state un po' martellando in privato:
1) che il nostro blog da estetologico starebbe trasformandosi in uno di critica cinematografica
2) che comunque riesce a comminare esclusivamente stroncature
Ora, dal momento che le critiche bruciano ma se vi scomodate a farle un fondo di verità devono pur averlo, ci premuniamo a rispondere che sì, è vero, ultimamente abbiamo dato alla critica cinematografica - arte secondo alcuni fuori fuoco - una certa predominanza. Ma ciò è avvenuto solo perché la redazione, che era il nucleo propulsivo e poietico del gruppo, praticamente non esiste più e quei pochi contributi li scrive quasi solo l'esperto in cinema. Arte che comunque non è poi così fuori fuoco, e per il suo essere multimediale (immagine e suono), la prima grande arte multimediale tecnologicamente connotata (il teatro o il balletto non lo sono, almeno non in tal misura), e per l'impressionante capacità di impatto emotivo che hanno le sue opere, quindi potenzialmente dal grande valore mutantrogenico. E poi, volete forse negare che Your Name fosse una patacca sentimentale adolescenziale? O che Blade Runner 2049, opera decisamente migliore, ma alla fine si risolvesse in un gioco di specchi finto-mutantropico di illusorie e irrealistiche "coscienze" cyber? O ancora che Il dott. Parnassus, forse l'opera col maggior potenziale sinestesico da noi esaminata, alla fine però si sia rivelata confusa e inconcludente? O, forse peggio, che The Young Pope di Sorrentino fosse, per essere gentili, quantomeno sopravvalutato per intrinseca insufficienza autoriale?
Chi altri oltre a noi ha affermato queste cose? Vorreste negarci la capacità - almeno quella - di andare controcorrente nel tentativo di informare su ciò che si tace?

Nondimeno accusiamo il colpo e, va bene, se proprio volete che la finiamo lì allora chiudiamo questa nostra carrellata cinematografica (ma fatta non solo per amore del cinema, bensì per esporre applicazioni pratiche delle categorie mutantropologiche) recensendo un capolavoro: Silence, film del 2016 di Martin Scorsese, ma tratto dall'eccellente romanzo Silenzio del giapponese Shūsaku Endō, scomparso nel 1996. Lo abbiamo definito capolavoro anche se non tutto ha incontrato il nostro gusto: ad esempio certo senso di sorpresa l'abbiamo trovato forzato, certe apparenze che poi non si sono rivelate reali per gioco cinematografico, nemici che si rivelano amici in tempi non realistici o viceversa (in realtà per il viceversa i tempi erano decisamente più realistici). Poi certo, riconosciamo che questi trucchetti siano necessari non tanto a tenere desta l'attenzione, ma soprattutto a rendere l'effetto psicologico dei molteplici errori interpretativi in cui incorre sistematicamente un occidentale nella terra del Sol Levante, e vi garantiamo che chi scrive ne sa qualcosa! ;)

Per il resto sì, il film è un capolavoro, perché alla sua luce tutta la teoria mutantropologica esposta in questo blog assume un altro significato, che forse è quello ultimativo e reale. E non solo per la sapiente mano registica (da quanto non vedevamo Scorsese tanto ispirato?), non solo per la stordente bellezza della fotografia, e non solo per l'indiscutibile perizia degli attori coinvolti, che siano occidentali o giapponesi. Ma soprattutto per la capacità di scrittura dei due autori Jay Cocks e lo stesso Scorsese, intellettuali e uomini di cuore capaci di enfatizzare in modo profondo e pieno la portata dei simboli evocati, facendo fare al nostrano Sorrentino la figura del guitto di provincia borioso e cannaiolo (non ce ne voglia l'interessato, di cui comunque rimaniamo fan ;). Il film, specie all'inizio, parla delle persecuzioni che i missionari cristiani (soprattutto gesuiti) e i loro convertiti locali dovettero subire nella prefettura di Nagasaki durante il XVII secolo. Poi però... lentamente, quasi impercettibilmente... la tematica cambia o, più esattamente, a quella delle persecuzioni se ne aggiunge un'altra che inevitabilmente prende il sopravvento, necessaria a comprendere il finale e il senso generale dell'opera. Giudati dall'instabile alcolizzato Kichijiro, i due giovani gesuiti portoghesi Rodrigues e Garupe partono da Macao per le terre intorno a Nagasaki alla ricerca del loro maestro spirituale, padre Ferreira, calunniato (secondo loro) addirittura di apostasia (da loro chiamata, secondo noi impropriamente, abiura) e di condurre uno stile di vita giapponese, addirittura more uxorio con una donna locale! I due vengono calorosamente accolti da miserrime popolazioni di pescatori e, ricolmi di mistico fervore missionario, officiano culto e battezzano a man bassa, facendosi amare dalle sparute comunità cristiane terrorizzate dalle persecuzioni.

Ora... ricordate cosa affermammo a proposito di fanatismo nel post L'Ego e i suoi Appetiti, di cui raccomandiamo fortemente la lettura? "Il vero egonanista si definisce per l'aggiunta di concupiscenze proprie. L'immobilista che non le ha, cioè applica tecniche osnoblotiche per perseguire un "bene esterno" o concupiscenze altrui, è la figura più vicina a quanto si potrebbe definire un fanatico", definendo così l'osnoblotico immobilista che, incurante dell'ambiente e di culture estranee alla sua, impone il suo sistema di valori come verità assoluta. Ed è questa piega che, sorprendentemente, comincia a prendere il film. Perché certo, ci sono le persecuzioni, c'è il male dell'uomo sull'uomo, ci sono quindi inevitabili conseguenze karmiche (la più brutta battuta che abbiamo sentito da astanti è stata: «ah, è successo a Nagasaki? allora se la sono voluta!»
), ma il film giustamente vuole evitare giudizi affrettati e manicheisti. Se il male sembra chiaramente da una parte, non è che nell'altra alberghi solo il "bene". Anzi. Certo, in quanto ciò giustifichi la prima è tema di aperto dibattito.

Infatti i due protagonisti, immediatamente dopo la prima ondata di gratificazione dell'ego, si rivelano presto goffi e talvolta addirittura meschini, incapaci di sostenere emotivamente le prove che la missione richiede, oltre che incapaci proprio di portarla a termine (trovano solo un anziano che abbia mai sentito parlare di padre Ferreira, che però se ne va perplesso senza esser stato di nessun aiuto). Per carità, non sono cattivi o malintenzionati, anzi sono due bravissimi ragazzi ricolmi di misticismo e (si diceva) fervore missionario, il che dal loro punto di vista equivale a dire "volontà di far del bene", ma è all'indurirsi delle condizioni e degli eventi che dimostrano impietosamente i limiti del loro stato d'anima, coltivato più sui libri in sicuri seminari europei che nel fango di difficili territori esotici. Quando viene offerto loro del cibo mangiano senza preghiera, quando scattano le persecuzioni non riescono a suggerire soluzioni efficaci, oscillanti fra atiquifobie e occasionali apatepofobie, anzi, quando avvengono le prime esecuzioni assistono impotenti al martirio. Di più: quando a loro volta vengono catturati si comportano in modo nevrotico e in preda al panico, lasciando perplessi i loro compagni di prigionia locali ma cristianamente rassegnati. Però prima che ciò avvenga i due si separano, circondati dalla diffidenza e dal disprezzo dei nativi. Il film segue l'efebico ma irsuto "padre" Rodrigues, dei due quello che sembrava più propenso al cambiamento (aveva consigliato infatti ai fedeli locali, contro il parere dell'amico, di calpestare le immagini sacre pur di non incorrere nel martirio), nella sua sconcertante sequela di apateporie: la comunità da lui battezzata risulta dispersa, riincontra la guida Kichijiro, l'unico ad aver sputato sul crocifisso, solo per venirne poi tradito, viene quindi imprigionato e sottoposto a processi nei quali, nonostante la presenza di validissimi interpreti, non sembra mai cogliere veramente il punto della questione. Arriva persino a dimostrare di non conoscere l'identità del suo accusatore, il terribile e celeberrimo inquisitore Inoue Masa, fra l'ilarità dei presenti. Infine assiste impotente alla morte dell'amico Garupe. In questo il film illustra magistralmente il passaggio psicologio dall'atiquifobia all'apatepofobia, da noi descritto nel lontano 2012.

Ma forse ciò che maggiormente lo ferisce, sia pur fra le torture psicologiche e le strazianti punizioni fisiche e persino uccisoni che lo circondano, è l'atteggiamento di Kichijiro, preda di una sorta di dinamica mutantroposnoblotica tipica di certo cattolicesimo (e riportata anche da Sorrentino guarda caso nello stesso AD 2016), ovvero la continua oscillazione fra peccato e confessione, che altro effetto non sembra avere se non la reiterazione del primo. Kichijiro si giustifica piangendo la sua debolezza, la quale doveva risultare comica o intollerabile agli occhi apparentemente spietati dei suoi carcerieri, che lo usavano come grottesco (e forse controproducente) simbolo di continua abiura, ma per il nostro gesuita in ambasce diventa ulteriore causa di messa in discussione della propria fede. Ed ecco quindi il significato del silenzio, o forse dovremmo dire del Silenzio con l'S maiuscola. Certo, il silenzio a cui sono state ridotte le popolazioni cristiane native, ma anche il silenzio a cui vengono costretti i padri gesuiti, così come il silenzio di Dio alle loro preghiere, invocazioni e suppliche. Ma anche il silenzio terapeutico, quello necessario alla meditazione e alla presa di coscienza. Il silenzio forse condizione unica per... riuscire veramente a sentire la voce di Dio?

Ma la Mutantropia di Rodrigues comunque non sarà sufficiente, perché insufficiente è la sua reale capacità di comprensione, insufficiente il suo stato d'anima, o di coscienza se si preferisce. Infatti, dopo tutte le prove e constatata la sua stolida ostinazione, interpretata non come atto di fede ma come indifferenza ai dolori inflitti ai nativi, i suoi carcerieri decidono di sottoporlo all'apateporia suprema: l'incontro col Mutantropo per eccellenza, l'oggi "giapponese" padre Ferreira. Qui il ricordo corre ai metodi del Grande Fratello di Orwell dove la devianza, prima di essere sanzionata con la morte, viene corretta fino all'amore. Perché in fondo è il sentimento che conta, nella consapevolezza oscura che le cose prendono forma prima nell'astrale - nel mondo dei sentimenti e delle idee, o degli archetipi se vogliamo - e solo dopo nel fisico. Eppure... a cosa porta quest'incontro fra un allievo emaciato e annichilito, più volte vicino alla perdita del senno (e fors'anche della fede), e l'ex maestro più imbarazzato che empatico? Alla spiegazione della più inconfessabile delle verità, spesso inutilmente suggerita anche dai suoi carcerieri giapponesi, in special modo dall'interprete e dall'inquisitore stesso, capaci entrambi di esprimersi in un eccellente portoghese: che l'invasione dei missionari cristiani, ancorché pacifica, è stata ottusa e non rispettosa. Che il Giappone aveva già un suo sistema religioso, non solo complesso e profondo quanto quello cristiano, ma forse persino più evoluto. Che la dottrina giapponese (su questo punto sembrava insistere l'interprete in un precedente dialogo: «solo persone veramente ignoranti possono paragonare i nostri Buddha [o più esattamente Bodhisattva] a esseri mortali»), il cosiddetto Buddhismo Zen, o Chan in Cina, similmente al Taoismo cinese o al Vedanta indù, ovvero al Sufismo islamico o alla Kabbalah ebraica, punta alla realizzazione di ciò che noi chiamiamo Metantropo, ovvero uno stato che trascenda quello umano, tramite la dissoluzione delle illusioni materiali nella splendente Verità divina.

Insomma che questa Verità è uno stato di coscienza che matura interiormente tramite consapevolezza ed etica, pensiero e azione, non una dottrina che si può imporre mediante rituali e perdoni continui (la confessione indiscriminata, come la vendita di indulgenze, fu il peccato capitale del cattolicesimo agli occhi di tutte le discipline iniziatiche). Che quest'ultima pratica, dopo attenti studi, risulta incompatibile, anzi pericolosa per un "campo morfogenetico culturale" dove altri sono gli ideali di realizzazione umana, quindi spirituale, il tutto al di là di pur presenti e validissime ragioni geopolitiche. Infatti gli unici ceti dove ha attecchito erano quelli più umili e vessati, dove più che una spiritualità ha fatto breccia la speranza in un luogo "altro" (il "paraiso") senza violenza, vessazioni o tasse. Peggio: la dimostrazione di tutto ciò era stata nella sprezzante indifferenza che i padri gesuiti avevano sempre dimostrato nei confronti delle culture locali, ignorandone lingua e tradizioni, negandone la spiritualità senza assolutamente comprenderla, al contrario di ciò che avevano fatto i nativi. Gli occidentali avevano così imposto una verità minuscola che, sebbene basata su solide radici spirituali, secoli e secoli di osnoblosi e giochi di potere avevano drasticamente trasformato, oseremmo dire tradito, fino a renderla un feticcio inaccettabile. Verità quindi osnoblotica che, aggiungiamo noi (come tutti coloro che conoscono la storia), altrove era stata imposta ai popoli dominati con la violenza delle armi ogni volta che fu possibile farlo, tra le più drammatiche conseguenze.
Mentre sorge il sospetto che forse la Verità vera, quella con la V maiuscola, un tempo esistesse anche in seno al cristianesimo, ma già allora e da diversi secoli non ve n'era più memoria (in realtà gli stessi anni in cui è ambientato il film vedranno la nascita in Europa del movimento Rosacroce, ma questa è veramente un'altra storia).

Per il piccolo Mutantropo Rodrigues sì, si tratta dell'apateporia suprema. E sceglie anche lui la via mutantropica evolutiva, fermando il martirio e calpestando l'immagine sacra. In fondo, trattandosi di un'immagine, non è forse una semplice formalità, pubblica per giunta (cioè non interiore)? Ed ecco che improvvisamente le cose cambiano: assume identità e moglie giapponesi, ma anche le comunità locali vengono lasciate alla loro libertà di culto (in fondo il Buddhismo non era penetrato qualche secolo prima sovrapponendosi al preesistente Shintoismo?). Il rispetto per l'ambiente è quindi assicurato ma anche lui stesso, apprendiamo solo alla fine, aveva potuto mantenere il suo credo. Purché lo facesse interiormente, negando proselitismi pubblici e fuori luogo. Bensì, come ogni autentica verità dell'anima, appunto... nel silenzio.