13 maggio 2020

Lo Chiamavano Jeeg Robot: un giudizio sereno




Ieri sera abbiamo avuto la sventura di assistere sgomenti alla proiezione di Lo Chiamavano Jeeg Robot (2015), per la regia e la produzione di Gabriele Mainetti, uno dei film italiani più premiati degli ultimi tempi. Eppure una delle più COLOSSALI CAGATE, almeno dal secondo dopoguerra. Il film fallisce clamorosamente in entrambi i suoi obiettivi: quello di creare un nuovo e inedito linguaggio filmico e quello, decisamente più scontato, di farlo facendo ovviamente leva sulle emozioni, ormai l'unico espediente non solo cinematografico, ma anche più generalmente artistico, di un'epoca dominata dall'ignoranza e schiava dell'emotività più becera.

Si diceva quindi che il linguaggio è stato l'esperimento più interessante del film, ovvero provare ad unire quello che già sarebbe stato un mix di stili nazionali (l'hard-boiled all'amatriciana di Romanzo Criminale con il cinema-verità di Pasolini) al cinema supereoistico DC o Marvel. L'operazione già nelle sue intenzioni sembra cinica e a dir poco spregiudicata, come unire il caviale alla cicoria, Omero con Trilussa, Raffaello col graffito metropolitano: si finisce per svilire il primo e svuotare di senso il secondo. Tanto più che già il "primo" qui non si capisce bene cosa sia o dovrebbe essere, certamente non Pasolini, nonostante l'autore ricorra a un cinema-verità dialettale e - nelle intenzioni - iperrealistico. Ma il Maestro friulano voleva indagare una realtà rurale (quindi anche dialettale) che si faceva identitaria di una cultura che andava scomparendo, qui invece il romanesco e il napoletano sono il contraltare di una sciatteria e un cattivo gusto che, lungi dal caratterizzare meglio i personaggi, abbassano il livello generale a romanzo di appendice di borgata romana, ma non di quelle che ti danno affetto ed empatia, bensì distanza e sostanziale estraneità. Tanto più che, come se non bastassero gli altri, il film decide temerariamente di far suo un altro difetto del cinema italiano contemporaneo: la dizione approssimativa e sussurrata (la grande piaga che ha reso inguardabile, ad es, la serie 1992, l'ennesima buona idea buttata nel cesso dai produttori nazionali), specie se in dialetto stretto, rende incomprensibile una percentuale dei dialoghi che, fuori da competenze linguistiche specifiche, non può essere inferiore al 30%, ma sappiamo di molti che ne hanno lamentato il doppio.


Ciò rende ancora più lontane e stranianti le scene cui si vuole dare una connotazione emotiva per rendere il film minimamente credibile (altro catastrofico fallimento della pellicola): la povera matta, una pur bravina Ilenia Pastorelli dagli improbabili denti finti, posticci come il suo personaggio, sembra appunto sopra le righe, un pugno emotivo eccessivo per la situazione e finalizzato esclusivamente a enfatizzare gli effetti drammatici dell'opera; la sua ingenuità infantile diventa maggior causa di dolore reale in una situazione irrealistica, l'ennesimo caso di iperrealismo irrealista del nostro cattivo cinema. Il protagonista stesso, un decisamente bravo Claudio Santamaria, è troppo stupido e coatto per essere vero, ovvero è troppo nobile e generoso per essere così stupido e coatto. Il suo approfittarsi della matta ha qualcosa di tardivo ed eccessivo persino per uno la cui unica "educazione sentimentale" siano i film hard, e il suo pentimento suona falso e insincero - oltre che improvvidamente spettacolare - in un cortocircuito fra emotività non funzionante e fallimento di sospensione dell'incredulità di cui non ricordiamo precedenti.


Il tutto peggiorato, specie in termini - appunto - di sospensione dell'incredulità andata per fiori, dall'inserimento ridicolo di temi supereroistici, capaci solo di contribuire a questo senso del falso, del posticcio, dell'appiccicaticcio incredibile, che rovina la pur buona interpretazione del villain Luca Marinelli, dalle tentazioni titaniche ma dagli esiti stereotipati e canonici. Una delle scene più drammatiche di cui si rende protagonista, ovvero far divorare dai cani l'ex socio, fa alzare gli occhi al cielo per il senso di straniamento (certo non brechtiano) che procura. Forse risulta volutamente grottesco il balletto con cui si libera dei suoi nemici napoletani, scena che certo non contribuisce alla riuscita generale dell'opera (né ha l'1% del dramma carismatico di un Joaquin Phoenix in Joker), mentre è solo patetico e ulteriormente sconcertante lo scontro fra titani avvenuto allo stadio, troppo simile a una normale scazzottata fra buzzurri, al netto di una ormai totalmente compromessa credibilità. L'esplosione low-budget dell'ordigno nel Tevere aggiunge solo sconsolata tristezza.


Lo... ehm, "spirito" del film viene efficacemente riassunto in una scena centrale: il personaggio di Marinelli, Lo Zingaro, cattivone belloccio e dannato (oltre che idiota perché social-dipendente), sniffa cocaina con un travone, poi ha con lui un grottesco rapporto sessuale in macchina, poi viene legato e imbavagliato dai camorristi che hanno prima sparato al travone, lui piange disperato ma loro scherzavano e lo risparmiano, eppure subito dopo vengono uccisi dal travone inspiegabilmente sopravvissuto a una serie di colpi, infine quest'ultimo a sua volta viene ucciso dallo Zingaro perché ora i camorristi erano tornati suoi amici. Di un idiotismo che va oltre l'esaltato e l'adolescenziale, è semplicemente e puro... idiotismo. Pulp e grottesco per il gusto del pulp e del grottesco, con sovratoni trash ma senza un briciolo dell'ironia salvifica, ad es, di un Tarantino. In tutto ciò non un tema veramente esistenzialista, non un personaggio dal sentimento titanico, non una solitudine o una malinconia coinvolgenti, insomma non un modello mutantropico dal valore sia pur minimo, non un rimando simbolico che possa minimamente dirsi tale - non pretendiamo universale o anche solo profondo - e non un senso nemmeno lontano di opera diversa dal fumettone coatto-buzzurro-popolare di serie z.

Ma ciò che ci ha lasciati più stomacati è stato l'unanime consenso che simile spazzatura ha ottenuto: 8 David di Donatello, 4 Ciak d'Oro, 3 Nastri d'Argento, 1 Globo d'Oro, 5 milioni di incassi, lodi sperticate - con troppe poche eccezioni - da parte di una critica ormai sempre più, scusate il gioco di parole, acritica e convenzionale. In una parola, conformista alle nuove mode dei ggiovani, segno flagrante del dominio ormai incontrastato di tecniche osnoblotiche in regime di disperazione. Ma almeno una cosa il film ce la insegna: lo stato del cinema italiano nei nostri tempi. Un cinema stupido, pasticciato, popolare in senso becero e incapace del minimo insegnamento al di fuori dei più stucchevoli buoni sentimenti. Adatto solo al suo pubblico, il che non è esattamente un complimento.