8 gennaio 2018

Apateporia di Pinocchio (recensione di Blade Runner 2049)



Fra i pochi contatti che ancora abbiamo con il mondo esterno, più d'uno ci ha chiesto un commento sul recente film Blade Runner 2049, sequel dell'omonimo "capolavoro" del 1982. Così... più o meno dovremmo farlo perché tratterebbe di un'ipotesi di Mutantropia non privata, cioè personale, bensì sociale. Sì, è chiaro che il replicante non è esattamente un modello mutantropico, poiché essendo un robot, una macchina, esso si sostituisce all'uomo escludendolo dal processo mutantropico personale. Ovvero questo avviene indirettamente, perché la macchina ne permette uno sociale, cioè, come voleva Wallace - uno dei personaggi del film, il principale produttore di replicanti, un uomo che si crede Dio - la Mutantropia la vive una società che può affidare il lavoro bruto e sporco alle macchine. Prende forma così il sogno di una tecnologia che affranchi l'uomo dai doveri terreni dei lavori più faticosi e umilianti e gli permetta di dedicarsi alla cultura, alle arti liberali, agli aspetti più elevati dell'anima o comunque della dimensione psico-fisica umana. Che poi gli uomini facciano veramente così e non si diano invece al vizio più dissoluto è un altro paio di maniche...

Mutantropia sociale dalla tecnologia, quindi, vista come capace di migliorare la condizione umana migliorando la società e il suo ambiente con macchine, come i replicanti, la cui interazione con gli uomini dà origine ad esperienze sinestetiche, ulteriore aggancio alle nostre riflessioni. In fondo si tratta di un'opera d'arte quindi gli elementi per dire la nostra modesta opinione ci sarebbero tutti. Anche perché nel frattempo - guarda caso - ci è capitato di vedere il film e... diciamo sin da subito che ha suscitato in noi sentimenti contrastanti. Certo in parte, in buona parte, ci è piaciuto: specie l'immaginario visivo, questa continua carrellata di inquadrature fantasmagoriche e allucinatorie che lo pone all'altezza dei grandi visionari del cinema contemporaneo, da Terry Gilliam a Shymalan, non trascurando Ang Lee e il suo immaginifico Vita di Pi. Ci è piaciuto il suo... prescindere da, diremmo fregarsene delle ritmiche del cinema moderno, esattamente post-tarantiniano, e riimporre i tempi dilatati del cinema d'autore di una volta, citiamo Tarkovskij per tutti, tempi dilatati che sorprende vedere applicati in modo così sistematico.


In effetti la cosa che più ci è piaciuta è stata la tematica base dell'opera, la sua ambizione come significante. Il film altro non fa che rappresentare una sorta di Pinocchio futuribile, ovvero la macchina che acquista coscienza. A questa macchina, Joe - nome dato da un ologramma di cui era innamorato - o Agente K - nome dato dagli uomini - è stato detto dalla creatrice di ricordi che con essi, con i ricordi, noi acquisiamo coscienza delle cose, quindi una personalità, ma essi sono validi soprattutto se suffragati da un'emozione. Così questa macchina, attraverso esperienze emotivamente fortissime, forse le più forti mai immaginabili come il rapporto col padre e la sua salvezza, arriva a credere di essere un essere umano, generato, non creato. Sembra così acquisire una maggiore coscienza di sé, si direbbe quasi un'anima. Insomma, a dar retta alle intenzioni dell'opera e dei suoi autori, a una macchina basterebbe un'esperienza forte, ovvero "emotivamente coinvolgente" (virgolette d'obbligo, visto che non sapremmo definire le emozioni per una macchina, dal momento che sono difficilmente definibili anche per gli esseri umani, e le discordanze dei vari teorici in merito sono lì a ricordarcelo), per acquisire una coscienza umana, diventare così "uomo" e trapassare il limite invalicabile, il "muro" - così definito da Madame, il capo di K - tra i regni. Per passare cioè dal regno minerale al regno dei viventi e non solo, ma al più alto ed evoluto di essi, quello umano. Fino ad acquisire la componente più misteriosa, sconcerante e in fondo sconosciuta del regno umano: la coscienza, o per alcuni l'anima. Dimostrata nel finale (si perdoni lo spoiler) ancor più che dall'essere "pronto a morire per una giusta causa", cosa che è prerogativa dei robot almeno dai tempi di Asimov, dal suo misericordioso permettere al padre la verità sulla sua discendenza.


Detto questo, il film non ci è sembrato esente da limiti, alcuni dei quali oseremmo dire decisamente criticabili. Ad esempio certi passaggi logici restano inspiegati o incomprensibili, come ad esempio non si capisce perché proprio all'agente K sia stato innestato un ricordo realmente vissuto e/o se questa cosa c'entri alcunché col fatto che sia lui a trovare il cadavere di Rachael. Inoltre troppo spesso questi tempi lunghi diventano autocompiacenti, autoindulgenti, rovinando così inutilmente il ritmo di un'opera già appesantita da dialoghi sospesi, trasognati, fatti guardando altrove o nel vuoto, per noi da sempre segno di cattivo cinema (non ci permisero di apprezzare, ad es, il primo Sorrentino de Le Conseguenze dell'Amore). Ma i limiti maggiori purtroppo provengono dalla prima opera omonima del 1982, film anche da noi considerato capolavoro, ma per ben altre ragioni e ben altre capacità di approfondimento di aspetti "oscuri" dell'animo umano.  La prima volta che lo vedemmo, anche noi, con le nostre diverse vite ed esperienze, rimanemmo stregati dalla suggestione di quelle atmosfere sporche e decadenti, dallo struggimento di pseudo-coscienze attaccate alla vita, dall'impossibilità di non riconoscere alla bellissima replicante Rachael una dignità umana. Poi però... crescendo... approfondendo studi sull'essere umano, conoscendo l'etica e l'estetica cyberpunk dalla quale si è sviluppata la teoria mutantropica esposta in questo blog, ci divenne sempre più chiaro un limite di quell'opera. Questo perché essa non risolve il principale problema che pone, ovvero la risposta alle domande: cos'è l'esistere, cos'è la coscienza, cosa sono l'anima e l'identità. Le dà per ovvie e scontate: è umano il corpo che umano sembra e per dimostrarvelo lo poniamo in un futuro oggi, nel 1982, impensabile: il 2019, cioè l'anno prossimo. Vedete tante macchine autocoscienti in giro? Davvero siete i tipi che parlano col frigo del loro problemi? ;) Nessuna macchina intorno a noi lo è, men che meno grazie a ricordi o memorie di sorta: il pc con il quale stiamo scrivendo possiede memorie prodigiose, specie se paragonate a quelle di allora, eppure non dimostra la coscienza di un coleottero.


Ci dispiace che il cinema, arte rappresentata da forme di luce, quindi illusorie per loro stessa natura, sia particolarmente adatto a giustificare questa suggestione, questo malinteso, chiamiamolo così, quest'inganno, un cortocircuito sensi-mente per il quale un oggetto che possiede forma umana non può che condividerne i moti interiori. Non scordiamoci in proposito il segreto legame ai limiti del feticista fra Alberto Sordi e il robot con sembianze femminili di Io e Caterina, film profetico in questo senso. Infatti noi spettatori comuni non resistiamo a questa suggestione e volendola credere a tutti costi non riuscimmo a scandalizzarci del fatto che il buon Rick Deckard - superbamente interpretato da un Harrison Ford in forma smagliante - si innamorasse e intrattenesse intercorsi carnali (in senso figurato ovviamente, perché qui cos'è "carne" e cosa no è tutto da vedere ;) con quella che era poco più di una bambola gonfiabile solo un attimo evoluta. Anzi siamo pronti a riconoscere anima, ovvero coscienza di sé, sia a Joe/agente K di quest'ultimo film sia all'ologramma che egli ama, arrivando a giustificare un assurdo di secondo grado: un ologramma cosciente. Cioè nemmeno la forma fisica serve più, basta un'immagine di luce che la ricordi, come appunto fa il cinema. What's next? Non siamo noi a guardare il film, è il film che guarda noi? :D


Lui, Joe/K, è convinto di essere generato, è convinto di avere un padre, quest'ultimo è un Deckard invecchiato, acciaccato e stanco, che vive circondato da una foresta di silhouette femminili (dando ragione ai pochi che osarono dargli del feticista allora ;). Forse è anch'egli a sua volta un replicante: il sequel vuole gettare questo sospetto ancora più del primo film, che già lo adombrava. A sentire il demiurgo Wallace, infatti, Deckard non è altro che un replicante, non molto forte (negli scontri diretti le ha sempre prese), probabilmente uno dei primi modelli ma obbediente e impareggiabile nel dare la caccia ai suoi simili, oltre che programmato per amare Rachael a prima vista. Lui nega, sa distinguere "ciò che è reale", avocando questa capacità a discriminante di un'esistenza cosciente. Nondimeno la bambolona l'ha messa addirittura incinta! BUM, fandonia, assurdità! Eppure... noi, nella nostra sospensione di incredulità, siamo più disposti a credere che in futuro esisterà una tecnologia in grado di imitare la riproduzione sessuale umana, o anzi addirittura di replicare un essere umano dal solo sperma, piuttosto che credere che una macchina, il cui firmware è costituito di routine e algoritmi, possa avere una sorta anche solo lontana di coscienza autonoma e non imposta, imprevedibile. Insomma di anima.


Ci spiace per il burattino che, nonostante i suoi sforzi, non può trovare la sua anima (forse per questo si sdraia sotto la neve, composta di particelle fra loro scollegate come le emozioni di questo film?), non può trovarla nonostante le affermazioni altisonanti, diremmo roboanti, di chi asserisce l'esistenza di una sedicente "intelligenza artificiale" che in realtà deve sempre provenire da una reale, figuriamoci una coscienza di sé. Oggi questa sedicente intelligenza si limita a scimmiottare il dialogo umano e può ingannare solo una mente semplice (molto semplice) o a cui manca la stessa coscienza che vuole imitare, o ancora chi - come spessissimo accade fra gli esseri umani - desidera innanzitutto essere ingannato. Così l'opera inganna sul problema che crede di risolvere, anzi, che dà come già risolto dal mezzo, il cinema che lo fa di default, dando ragione alla celebre affermazione di McLuhan "il mezzo è il messaggio". Pinocchio conosce la sua apateporia perché nella realtà sarebbe destinato a capire a sue spese che lui, replicante conformista (come suo padre? ah no, non è suo padre! e forse nemmeno replicante: lui distingue il reale ;), è e resta solo un burattino. Ma Pinocchio è pure l'opera, perché in fondo ci dice una bugia, che forse questa recensione ha contribuito a smascherare.