10 ottobre 2019

Herzog e Villeneuve: due fallimenti speculari


Carissimi, è un po' che il blog non pubblica nulla ed è così che abbiamo pensato di disturbare il nostro riottoso redattore cinefilo a cui accorriamo nei casi di necessità. Quindi oggi parleremo di due film falliti, diciamo due brutti film, ma ancor più che brutti - cosa che, tranne certe enormità come l'albero di natale Oppo, davvero ci riguarda poco - falliti nel loro voler essere a sfondo trascendente/spirituale senza esserci lontanamente riusciti.

E qui si presenta l'ennesima excusatio non petita... perché Technesya parla di argomenti simili, cosa che davvero non rientra nelle sue prerogative? Vero, non siamo un blog di trascendenza, bensì di proposta/provocazione estetica: la Sinestesi in fondo vuol essere una delle più profonde e incisive proposte artistiche oggi in circolazione proprio perché finalizzata a innescare il cambiamento nell'uomo, cambiamento che, laddove fosse evolutivo, definiamo Mutantropico. E dove porta la Mutantropia sistematicamente perseguita? Al Metantropo (da un nostro celebre post), ovvero un essere umano oltre l'uomo, inevitabilmente connotato di "stati superiori dell'essere" (qualunque cosa si intenda con questa formula) da cui non possono escludere quelli spirituali. Per questo ci interessano film di argomento religioso, magico o esoterico, perché inevitabilmente propongono modelli mutantropici che puntano al metantropico.

Ma qui i due autori hanno fallito, e curiosamente in modo speculare. Parliamo di un mito della cinematografia mondiale, Werner Herzog, e la sua criticatissima opera del 2016, Salt and Fire, e del coetaneo e forse persino più brutto Arrival del mediocre e sopravvalutato Denis Villeneuve, da noi già stroncato per Blade Runner 2049 (successivo a quest'opera), per quanto - al contrario del precedente - non siano sue le responsabilità di sceneggiatura. Due fallimenti speculari, si diceva, perché il primo è frutto un'ottima idea mal realizzata, il secondo invece è un indigesto polpettone mistico superprodotto. Ma andiamo con ordine.

Werner Herzog - SALT AND FIRE


Tutti noi studiosi di cinema abbiamo amato profondamente Herzog, con o senza il compianto attore alter-ego Klaus Kinski, dai tempi di Nosferatu (il deviante respinto dalla società, cui fa orrore) fino a Kaspar Hauser (il deviante accettato dalla società, che cerca di integrarlo), da Aguirre, Furore di Dio (l'occidentale antropocentrico che cerca di dominare la natura selvaggia con la forza) a Fitzcarraldo (come prima ma con l'arte e la cultura, non finirà in modo diverso), fino al recente capolavoro di Grizzly Man: superba docu-fiction sull'occidentale non più antropocentrico, anzi che cerca di integrarsi nella natura (essendosi psichicamente "disintegrato" nella cultura), fino a venirne divorato. Suoi per eccellenza i temi del viaggio, del cambiamento, ma soprattutto dei rapporti fra natura e cultura, della maestosa forza della prima sugli sforzi brutali, ottusi e a tratti un po' patetici della seconda.

Tutti concetti cari al nostro, che anche qui cerca di richiamare declinandoli su tematiche ecologiche e ambientaliste, ovvero la crudeltà dell'industria umana (la cultura) nello snaturare e uccidere la natura. Si rievoca qui qui la recente storia del lago salato - o mare chiuso - di Aral, prosciugato dall'industria sovietica, al contrario dell'area in cui è ambientato il film, il magico Salar de Uyuni in Bolivia, che invece è area di origine naturale e preistorica dove la natura, pure nella sua forma "morta", nondimeno mostra paesaggi di algida bellezza con le sue sterminate distese di sale. Qui la dinamica antropocentrica sfiora il manicheista: da una parte gli industrali "cattivi" e sfruttatori di risorse fino al loro esaurimento, dall'altra colei che cerca la giustizia, la dott.sa Laura Somerfeld, donna, quindi politically correct, forse giusto un po' rigida nel suo sistema di valori  C'è sempre sullo sfondo la natura che prima o poi si prenderà la sua vendetta, il vulcano Uturunku, ma resta giusto sullo sfondo, quasi elemento posticcio.
Infatti alla fine il film parla d'altro, ovvero di un mutamento nel sistema di valori della protagonista, di un loro approfondimento, quindi di un cambiamento/sviluppo dello stato di coscienza. Ma questo non avverrà per gesto mutantropico, bensì per mutamento culturalmente imposto (per quanto con l'ausilio di una natura devastata unica), quasi forzato: il bello ma maledetto Matt Riley, direttore del consorzio d'imprese locale, quindi almeno corresponsabile del disastro, abbandonerà la nostra eroina in mezzo al deserto di sale con due bambini gemelli ciechi. Quale miglior simbolo delle forze gemelle della natura dialettica, cieche - ovvero impersonali - nel loro agire? Eppure qui il simbolo sembra sfocato, i bambini sono solo due creature in stato di bisogno, avrebbero potuto avere in alternativa qualunque altro tipo di menomazione. Ed è questo il difetto del film: l'autore ha conoscenza e cultura da vendere, sa evocare simboli efficacissimi, ma è come se la loro portata gli sfuggisse, insomma non riesce ad estrarre da questi le loro più profonde conseguenze, accontentandosi di una superficiale suggestione (si veda, in proposito, la scena finale della sedia a rotelle girovaga nel deserto).
Anche i compagni uomini della dott.sa Somerfeld, uno demenziale l'altro bellone ma vuoto, vengono presto ridotti all'impotenza con una scena che vuol essere comica ma risulta come decontestualizzata, quasi estranea al linguaggio del film, e così vengono tolti di torno tanto in fretta da farci chiedere il perché della loro presenza iniziale. A questo si aggiungano problemi di credibilità, come l'aeroporto deserto all'arrivo della delegazione, un po' strano da parte di uno come Riley che - per quanto ricco - si muove fuori dalla consapevolezza del suo stesso governo, così come il suo stesso pentimento avvenuto a seguito della cecità dei gemelli, quindi all'apparenza mutantropico, ha qualcosa di tardivo e retorico, non parla all'anima ma neppure alla semplice emotività. Insomma, se nelle sue intenzioni il film alla fine vuole dire "l'essere umano e il suo stato di coscienza autenticamente vissuto valgono molto di più di un sistema di valori, per quanto ecologico, quindi dalla parte del giusto", è anche vero che lo fa in modo così pasticciato e pressapochista, così sfocato nelle simbologie e sfilacciato nella sceneggiatura, da riuscire a rovinare tutto.

Denis Villeneuve - ARRIVAL

 
Qui, al contrario, ci si trova davanti a una produzione hollywoodiana, oseremmo dire perfetta, quasi faraonica, di un indigesto polpettone mistico. Mistico perché prende una delle più sconcertanti verità di ordine trascendente, ovvero la circolarità del tempo, la sua sincronicità o, meglio, a-diacronicità, e lo inserisce in un contesto emotivamente sovraesposto di dramma familiare o, peggio, di allucinazione xenofila collettiva. Il tutto in un'opera artefatta e un po' cerebrale nel suo porre l'attenzione su un linguaggio alieno (anch'esso circolare) da tradurre a tutti i costi.
La linguista Louise Banks, anche qui una donna (è un vizio, forse che si creda così di far passare meglio messaggi non razionali?), ha vissuto un terribile dramma famigliare con la morte improvvisa della figlia adolescente, ma viene presto distratta dal suo dolore dal clamoroso arrivo sulla terra di 12 astronavi aliene. Certo 12, come le ore, come gli Apostoli, come i segni zodiacali o eoni della natura che dir si voglia. Non senza un certo raccapriccio, e comunque dopo una scena estenuante e interminabile (a ridatece gli Incontri Ravvicinati del 3° Tipo!), si rende conto che gli alieni sono mastodontici poliponi nerastri ("eptapodi", dai sette piedi), che per comunicare spruzzano enigmatici cerchioni di inchiostro. Il genio della nostra linguista le farà intuire da principio la palindromia di queste frasi circolari, e in seguito anche il loro significato, attraverso una serie di sillogismi incomprensibili se non per la loro distante cervelloticità.
Ecco quindi che dopo una minima suggestione iniziale il film procede con una lentezza spasmodica, fra tentativi di decifrazione e dialoghi spesso inconcludenti con esseri dall'apparenza terribile ma dalla motilità nulla. Il tutto contornato da paure, insicurezze (atiquifobie e apatepofobie) e piagnistei assorititi. Poi, colpo di scena: una bomba piazzata da militari ottusi e cattivi, o forse solo esasperati, non riuscirà a mandare tutto a catafascio, anzi, sarà in seguito a questa, per una delle incomprensibili consecutio (il)logiche del film, che si introdurrà un altro pezzo cervellotico del puzzle: si apprende che ognuna delle 12 astronavi aliene sta comunicando 1/12 di messaggio, alè, giusto per complicare utilmente il brodo. Da qui, per un'ovvia conseguenza, ovvero per una sorta di PNL che nel suo cervello ha realizzato il nuovo linguaggio (roba da lasciare veramente perplessi), la nostra Luoise Banks potrà vedere il futuro, convincerà quindi l'esercito cinese a non attaccare gli alieni (in modo ovviamente lacrimevole ed emotivo) e successivamente si scoprirà che sua figlia non solo non è ancora morta, ma non è nemmeno mai nata e la sua triste storia è solo frutto di visione del futuro. L'insegnamento che lei ne trarrà (non lo spettatore sconcertato) è che la vita va accettata in ogni sua parte, anche quelle più dolorose, perché essa è parte di un tutto a noi oggi incomprensibile.
Ora... al di là del fatto che una simile morale sia condivisibile o meno (noi personalmente non abbiamo nulla contro)... ciò che ci ha maggiormente irritato di questo film non è poi così dissimile dal problema da noi evidenziato nel successivo Blade Runner 2049: la pochezza di stato d'anima di un autore che parla con retorica e prosopopea di cose che non conosce, cercando in tutti i modi una suggestione a tratti becera ed emotiva e mettendo a questo sordido servizio simboli o archetipi fuori dalla sua portata. Così, fra scene maestore e stupori ostentati, si susseguono piagnistei emotivi ed enigmi cerebrali, si sciorinano verità cosmiche senza un vero fondamento e comunque senza mai cogliere il punto, come dire? iniziatico, sapienziale delle stesse. La tecnologia resta aliena, anche quando terrestre, perché mal intenzionata. La Mutantropia è involontaria, quasi subita, quindi non Mutantropia, oppure quando lo è (la decisione di accettazione finale) è una ben piccola cosa contrabbandata per grande verità. Un polpettone cosmico-patafisico, insomma, capace di suggestionare una mente semplice ma incapace di insegnare alcunché di fondato e definitivo, nonostante l'ausilio di archetipi eterni. Ne emerge un misticismo stucchevole e inconcludente, frutto dei compromessi contraddittori di un'opera divisa fra suggestione e botteghino, e della pochezza d'anima (vogliamo dire di capacità intellettuale elevata?) dei suoi autori.

In conclusione: ci fa piacere dedurre come questo secolo "osceno e pavido" (cit.) metta le tematiche mutantropiche e trascendenti al centro della sua attenzione. Ci lasciano perplessi i risultati, come se in giro non ci fossero intellettuali capaci o almeno degni di questo nome, o come se ormai fosse troppo tardi per tentare la minima inversione di tendenza, nonostante i capitali investiti. O, peggio, come se ci fosse dietro un'oscura intenzione. Perché, per carità, se è vero come è vero che una brutta ricerca è sempre meglio della sua totale mancanza, è anche vero non c'è osnoblosi peggiore del contrabbandare una verità Sacra per una carambola inconcludente, per un piacevole entertainment che un po' ti appassiona e un po' ti suggestiona, tanto poi passa presto nel grigiore ripetitivo delle nostre esistenze qualsiasi. 


Diciamo che se fossimo sospettosi ci riferiremmo a un celebre autore del secolo scorso che chiamava questa particolare forma di osnoblosi "controiniziazione". In realtà sappiamo riconoscere la semplice pochezza autoriale.