La mutantropia non è evoluzionismo, poiché questo è involontario e comune al regno animale (sebbene un evoluzionista possa erroneamente trovare conferme nella mutantropologia). Come primi si definiscono quindi non mutantropici tutti quei cambiamenti non umani e/o prettamente naturali (visibili o invisibili).
Fra quelli umani non sono mutantropici i cambiamenti che non solo esulano dallo stato di coscienza dell’individuo ma che, quand’anche coscienti, producono effetti contrari a quelli desiderati.
“I doni discendono dall’alto nelle loro proprie forme”. Con questa frase Goethe metteva in guardia colui che desidarava dal rischio di poter realizzare il proprio desiderio. È infatti esperienza molto comune il senso di insoddisfazione che segue, con un tempo maggiore o minore, l’appagamento del desiderio stesso.
Questa considerazione non è in contraddizione con il punto precedente, poiché si definisce mutantropico quel cambiamento che al momento della sua realizzazione viene percepito dalla coscienza dell’individuo come “positivo”, senza ulteriori considerazioni di lungo periodo.
La mancata percezione di positività o di successo nel cambiamento intervenuto dà origine alla frustrazione, fino alla vera e propria apateporia (che definiremo in seguito), o senso di handicap. Quest’ultimo è altamente mutantrogenico, anzi non ci si sbaglia nell’affermare che la maggior parte dei cambiamenti mutantropici abbiamo origine proprio dalla frustazione e dal senso di handicap.
Da questo punto di vista tutti gli uomini sono considerati handicappati.
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