6 marzo 2012

L'Arte e i Suoi Sensi

L’uomo vive immerso in un ambiente più che significante, addirittura ridondante, in cui un coacervo di segnali e simboli si intrecciano e si sovrappongono, affermandosi e negandosi, fino a sfiorare il cosiddetto collasso dei significanti. Per fare ordine i sensi compiono un’operazione di sincretismo, o forse più esattamente di sintesi, che permette alla coscienza di identificare come oggettivo un representamen semiotico definito univocamente per ridondanza di segni (se ho il dubbio di avere una pera davanti a me perché temo che gli occhi mi ingannino, posso sempre toccarla e/o annusarla).

Multisensorialità significa polisemia, ma messaggi diversi che impressionano sensi diversi possono arrivare a contraddirsi. Al fine di eliminare ogni tipo di ambiguità dalla sua comunicazione di informazione, l’uomo ha inventato codici referenziali, cioè riferiti ad un unico oggetto, e monosensoriali, che utilizzano cioè un solo senso. E questi sono tipicamente o la vista (parola scritta e simbolo grafico/visivo), o l’udito (parola parlata e simbolo sonoro). Per esempio se lo studente tradizionale passa ore sui libri consumandosi la vista, il cartello stradale “senso unico” in questo senso è addirittura sorprendente: su un solo canale, colpisce un solo senso, indica un solo inequivocabile messaggio, che contiene un’unica direzione. Eppure l’esperienza universitaria, eminentemente nel caso di una lezione, è un’esperienza sinestetica così come quella della guida su strada.

Fuori dalla referenzialità, ma sempre rimanendo nell’ambito culturale, troviamo l’arte e in parte anche certo artigianato, perché no?, nonostante sia strutturalmente inadatto ad essere polisemico. In Occidente i generi “nobili” dell’arte, pittura, scultura, poesia, musica e architettura, nel corso dei secoli hanno voluto specializzarsi in un proprio canale sensoriale precipuo. Questa specializzazione risulta forse meno sorprendente di quella sopra esposta riguardo il referenziale: l’impegno monosensoriale tipico dell’ascoltatore o dell’osservatore tradizionale permette quei momenti di vuoto, quella pausa dalla ridondanza che sola può favorire quel silenzio interiore così necessario alla riflessione e ad una corretta interiorizzazione dell’opera d’arte. Interiorizzazione che, per quanto l’opera sia monosensoriale, è comunque figlia di un’esperienza di tipo sinestetico: la lettura, ad esempio, rappresenta in sè un’attività “qualsiasi”, indifferente, al più interessante, a tratti noiosa, probabilmente presto dimenticata e rimossa; infatti è solo il riconoscersi nell’opera, è l’accettarne le strategie comunicative logiche ed emotive, quand’anche si trattasse di mero scritto, a renderla unica. Noi vi partecipiamo, ci riconosciamo, ne apprendiamo in modo indelebile grazie alla sequela delle emozioni, degli auto-riconoscimenti, dei sussulti, delle indignazioni e dei blocchi o sblocchi emotivi interiori, un’esperienza sinestetica alla massima potenza.

Laddove l’arte parla a più sensi, invece, come ad esempio per il teatro o il balletto o più recentemente il cinema, che comunicano con vista ed udito, essa è detta multimediale, cioè basata su più mezzi. L’esperienza di chi la vive è multisensoriale. Ma laddove i sensi si combinano a creare qualcosa di nuovo, di superiore alla somma delle singole componenti, allora si parla di vera esperienza sinestetica. Derivata dal greco συν (syn) “insieme” e αισθησίσ (aisthesis) “percezione”, la sinestesia come processo naturale standard è la capacità di vivere un’esperienza con più sensi contemporaneamente inferendone informazioni supplettive, mentre dal punto di vista psicologico è il sovrapporsi neurale anormale di due o più sensi che porta a percezioni inedite e difficilmente esprimibili.

Certo! innanzitutto l’esperienza più sinestetica che esista è quella della realtà, la quale è anche, per quanto forse in minima parte, un fenomeno culturale. Le “componenti culturali della realtà” sono quelle create dall’uomo in quanto essere pensante: gli scritti, i simboli umani, i manufatti, i gesti culturali (la differenza fra uno starnuto improvviso/incontrollabile e uno defluito nel fazzoletto). Queste componenti, a loro volta, possono essere categorizzate come idee (che a loro volta si dividono nei principi eterni di Platone e in quelli culturali detti meme), come segni (scritti e simboli che ad esse rimandano); o come materializzazione/manifestazione delle stesse nei manufatti, nelle ideologie, nelle culture e nelle società, comunque delle idee sempre simboli e ad esse riconducibili, perché ogni oggetto, segno o effetto culturale è sempre considerabile come simbolo della sua causa.

Si può quindi cominciare ad affermare che è possibile parlare di segno sinestetico in senso stretto ed appropriato solo laddove si considera la sfera culturale. Questa distinzione è necessaria poiché, essendo quella sinestetica un’esperienza, non esisterebbe attività umana di sorta che non si configurasse come sinestetica (da quella defecatoria a quella sessuale). In questo senso si definisce sinestetica strictu sensu, quindi, l’esperienza di chi viene stimolato culturalmente su più sensi.

Il problema è che, come s’è già visto, a un certo punto di questo processo s’inserisce l’Osnoblosi.

3 commenti:

  1. Scusate, ma da una parte dite che multisensorialità significa polisemia e dall'altra che l'artigianato è "strutturalmente inadatto a essere polisemico". Cioè non esiste un artigianato multisensoriale? Un pupazzo-scimmietta che canta e balla non sarebbe multisensoriale? O non sarebbe artigianale? Spiegatevi meglio

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    1. Caro Arak,
      grazie infinite per la tua domanda che è intelligente, sottile e alla ricerca di eventuali contraddizioni. Sicuramente i nostri discorsi non sono perfetti, soprattutto quelli fatti per affrontare un argomento complesso e quindi necessariamente sintetici per non annoiare chi ci segue.

      Con "multisensorialità significa polisemia" stavamo riferendoci alla natura, più esattamente a quell'esperienza di vita che costringe i sensi a mettere ordine fra i segnali in arrivo, al fine di evitare il collasso dei significanti. Ma cosa vuole o può dirci la natura? A saperlo.... davvero, se ci pensi, nessuno può dirlo con definitiva certezza. Ovvero ognuno può dire la sua e, salvo catastrofiche stupidaggini, nella certezza di non poter essere contraddetto. Per questo il "segno naturale", cioè quella manifestazione di natura che l'uomo crede di poter interpretare come segno, è polisemico, cioè soggetto ad una significazione che, se non infinita, è perlomeno indefinita, indeterminata.

      Al contrario, nessun oggetto culturale può vantare tale caratteristica, poiché di ognuno conosciamo la causa: sappiamo perché è stato scritto un trattato di cui i suoi significati, per quanto potenzialmente molteplici, sono comunque definiti; così come sappiamo perché è stata costruita una sedia, per quanto ci rimanga sconosciuta la natura ultima del legno.

      Unica eccezione a questa regola è rappresentata dall'arte. Perché?

      Si sa che "l'artista è il peggior interprete della propria opera", quindi se nemmeno l'uomo che l'ha creata può definire univocamente tutti i significati del proprio manufatto, figuriamoci l'umanità che ne è estranea. Per questo, similmente alla natura, la cultura-arte è polisemica o più esattamente l'UNICA cultura polisemica perché trasmette una quantità indeterminata di significati a seconda dello stato di coscienza del singolo o della civiltà che la analizza. Non scordiamoci che in passato venivano ricoperti gli affreschi più antichi per poi essere letteralmente riscoperti secoli dopo.

      Ecco, secondo noi l'artigianato non ha questa caratteristica. Anzi, tale mancanza potrebbe definirlo rispetto all'arte perché si può affermare che è artigianato quel manufatto artistico che non genera polisemia. Non ce l'ha perché il suo scopo è decorare, divertire, intrattenere come la scimmietta che canta e danza, non interrogare profondamente, non mettere in discussione, non favorire elevazioni di stato di coscienza. La multisensorialità c'entra poco: anche la televisione parla a vista e udito, ma tutti conosciamo i suoi effetti sulla psiche umana, ben lungi dall'essere "artistici".

      L'artigianato quindi è "strutturalmente inadatto a essere polisemico" non perché non multisensoriale, ma perché non arte. Beninteso: ciò avviene fino a che esso viene usato come tale, cioè artigianato. Se a un provocatore estetico, ciò che un vero artista in primis dovrebbe essere, venisse in mente di utilizzare un tarocco egiziano come moderna Sfinge in grado di interrogare il villaggio globale, quell'oggetto diventerebbe opera d'arte, così come Duchamp ha reso tale non tutte, ma bensì QUELLA ruota di bicicletta messa sul piedistallo.

      Scusa Arak se il discorso si fa complesso e difficilmente definibile. Noi ci aspettiamo che un oggetto abbia una qualità definita per proprietà intrinseche: questo è un elettrodomestico perché aiuta nei lavori di casa, quello è un manuale perché contiene istruzioni ecc. L'opera d'arte non è così ed è prprio questo che ci preme sottolineare. L'arte è tale perché può essere usata come tale, perché qualcuno ci ha azzeccato nel proporla ed essa interroga generazioni e generazioni d'uomini, quando smette di farlo nel migliore dei casi diventa simbolo, nel peggiore mero artigianato.

      E’ necessario non fermarsi alla superficie delle cose, ma esigere di interrogare ed essere interrogati dall'arte per qualunque oggetto essa sia e qualunque concetto rappresenti.

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    2. Bravi, sono perfettamente d'accordo con quanto affermate! SE l'opera d'arte smette di essere polisemica (non è detto che lo faccia), diventa simbolo laddove segno mono- o multisemico di qualcosa di importante e profondo. Diventa artigianato se svilita a livello di decorazione o abbellimento. La fine che secondo me rischiano di fare le opere di Andy Warhol.

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