14 maggio 2021

Nomadland: un semplice caso di edonismo borghese

Insomma carissimi, è inutile negarlo: il blog ha terminato la sua attività. Ma davanti a fenomeni osnoblotici di questa portata, specie se su tematiche (sedicenti) artistiche e viepiù mutantropiche, fremiamo di uno sdegno che non ci permette di tacere.

Bene, come tutti sanno, un po' a sorpresa l'Oscar 2021 l'ha vinto Nomadland, sorta di road movie della regista cinese (e, a dir poco, borghese) Chloé Zhao. Un film tutto in rosa, dal momento che è stato scritto, diretto e interpretato da donne. Da allora la critica ha declamato con una sola voce un tripudio di lodi entusiastiche, cosa che ci sta, ci mancherebbe, come si dice "it's a matter of taste", anche perché non si tratta di un brutto film, anzi. Quello che però ci lascia sconcertati è l'unanimità acritica e quasi senza eccezioni di un tale punto di vista, per un film che, lo vedremo analizzandolo, nel suo essere carino non è poi quel meritevole. Ciò ha confermato la nostra bassa, diremmo anzi bassissima, considerazione dell'Oscar, premio che - per fare un esempio a caso - nel 1982 ha trascurato un capolavoro epocale come Furyo con David Bowie per gratificare invece I Predatori dell'Arca Perduta. Davvero, solo questo qualifica l'iniziativa più di 1000 nostre parole. Ora... non vogliamo dire che quest'anno sia successa una cosa simile (ci sarebbero ben altri anni e ben altri esempi, vedere qui o qui), ma certamente non è per amor di patria (che chi ci conosce sa essere assente in noi, anzi) che affermiamo che, ad esempio, il Pinocchio di Matteo Garrone sarebbe stata opera ben più meritoria, anche perché archetipo mutantropico ormai per antonomasia. Ma non importa, non vogliamo fare confronti, ma solo dimostrare con le categorie della mutantropologia la mediocrità un po' meschina e forse un pelo ipocrita dell'opera vincente, oltre alla sostanziale incomprensione della critica che tanto l'ha ricoperta di encomi.

Ordunque, di cosa tratta Nomadland? certo, è un road movie, già detto. Certo parla di una donna, Fern, interpretata dalla strepitosa (questo va detto) Frances McDormand, l'unica attrice in grado di apparire brutta, buffa e goffa come un uomo, e dal punto di vista dell'arte attoriale questo è un merito. Una donna che decide di condividere le vite dei diseredati e dei disadattati, essendo rimasta senza casa lei stessa (interessante quando specifica "senza tetto, non senza casa", tentando di rendere l'intraducibile "houseless, not homeless"). Fin qui tutto bene, il film sembra stare dalla parte dei poveri, dell'umanità tritata da un sistema economico e bancario spietato, senza riguardo per il valore della vita e generatore di iniquità e miseria, oltre che potenzialmente di devianza (e diciamo "potenzialmente" perché qui sta uno dei difetti del film, come vedremo). Il tutto corredato da immagini bellissime, panorami mozzafiato di una natura che negli USA sopravvive fiera e selvaggia, di una forza stordente e incontaminata.

Ecco, questo è il bello del film: una donna buffa e bruttina che gira gli USA a fianco dei poveri e dei disadattati, godendo di una natura a dir poco meravigliosa. Ok. Quanto può reggere una cosa simile, un quarto d'ora? Mezz'ora, tipo documentario? Insomma, in quasi due ore di film qualcosa bisognerà pur dire, no? Ed è qui la prima domanda: di cosa si parla in quasi due ore, alla fin delle finite? Beh, di primo acchito uno potrebbe rispondere: di ingiustizia sociale, analizzando singoli casi di cui la protagonista si interessa, ciò dovrebbe provocare sdegno e dare origine a una forte critica nei confronti del sistema americano, no? Oppure ancora di Mutantropia, tematica eminentemente connessa al viaggio (si comincia in un modo, ma le esperienze porteranno a un cambiamento), specie se connotato emotivamente dal rapporto con gli altri, vero? Sì, potrebbe, o forse proprio dovrebbe, invece....  

Invece, non si sa quanto volontariamente, a un certo punto il film getta la maschera. Certo, ci aveva dato qualche preavviso: lei non è veramente interessata ai disadattati, lo è molto di più a trovarsi lavoretti occasionali per sopravvivere. Per carità, non c'è nulla di male, è una persona onesta e non ruba niente a nessuno, ci mancherebbe. Ma questo è il suo scopo, girare per paesaggi incantevoli facendo esperienze naturalistiche pseudo-mistiche e lavorare quel minimo per poterselo permettere, non altro. Disgraziatamente sulla sua strada è pieno di poveracci e disadattati, ma basta comportarsi in modo più o meno gentile con tutti e vedrai che non avrai problemi. Cosa, tra l'altro, singolarmente falsa (altro elemento osnoblotico): chi scrive è persona di mondo in modo sufficiente da aver vissuto in mezzo ad homeless e casi umani vari, ed è abbastanza onesto con se stesso da aver capito che non esistono le favole, che la povertà porta sì a benevolenza, solidarietà e condivisione (soprattutto, anzi), ma anche a piccoli furti e sconcertanti meschinità. A piccole e grandi violenze, sopraffazioni tipiche dell'ignoranza giustificata dallo stato di necessità. Cosa di cui non c'è la minima traccia nel film, dove i diseredati sembano tutti angeli, tutti santi, tutti votati alla creazione di una società utopistica fuori dalle regole del mainstream e dedicata all'aiuto reciproco e alla solidarietà senza conflitti. Che dire? Amen

Però, come si diceva, lei non è veramente interessata a loro, se non per piccole necessità pratiche, anzi a un certo momento getta la maschera e si rivela quella che è: una persona in fondo privilegiata che ha fatto una scelta di vita perché poteva permetterselo. Una che in caso di necessità sa dove trovare il denaro per affrontare i problemi, e volendo avrebbe anche la possibilità di vivere una vita agiata. Ci mancherebbe, nulla di male, anzi forse è più meritevole un borghese che sceglie di vivere fuori dagli schemi rispetto a un dozzinale conformista (Technesya docet, dopotutto, no? 😄), ma per favore non parliamo di film interessato a chi ha perso tutto! Lei è sempre gentile con tutti, per carità, ma non è una di loro e non è veramente interessata ad alleviare in qualche modo le loro sofferenze, ma nemmeno a creare vera coscienza sulla loro condizione. Vuole solo essere lasciata in pace e godere delle prerogative positive di questa vita dedicata alle bellezze naturali, accettando di buon grado di pagarne le conseguenze e i disagi, insomma una sorta di gaudente epicurea che accetta i malesseri conseguenti ai suoi vizi. 

E il film si dipana fra paesaggi mozzafiato e imbarazzanti momenti di noia, seguendo l'edonismo nomade della protagonista che sembra vivere tutto un po' per caso, non volendosi attaccare a niente e a nessuno, ma nemmeno risultando di alcuna reale utilità a chicchessia, come ad es. lo stato di coscienza di un sempre più annoiato e perplesso spettatore. Inoltre un simile viaggio, tanto godevole da vivere quanto tedioso da guardare, nemmeno riesce ad arrivare alla minima valenza mutantropica! Lei sembra non imparare mai nulla dalle esperienze che vive, sembra volersele solo lasciare alle spalle. Certo deve superare il lutto per la perdita del marito, ma anche questo sembra quasi un incidente che non produce mai vera coscienza, non induce mai effetti mutantrogenici, in uno stato di immobilismo mentale e morale che ha del deprimente, e che fa di una dorata e privilegiata precarietà ragione di esistenza. Un'esistenza piatta, che prosegue per godimenti e senza mutamenti o vere apateporie, giusto occasionalmente disturbata da qualche piccola seccatura o momenti di emotività piagnona, ma presto superati. E sul povero spettatore, insieme ai mervigliosi panorami, si riversa un tedio da inconcludenza, una sequela di vuoti eventi da culo sul velluto in gabbia dorata mobile, peggio, pure un po' paraculo perché vuole sembrare l'opposto.

Insomma, noi di Technesya non siamo né possiamo essere contro chi fa del continuo perseguimento del proprio piacere causa di vita, ma semplicemente vogliamo chiamare le cose col loro nome, fuori da osnoblosi e ipocrisie posticce. E qui invochiamo coerenza: se vuoi fare un film sui poveri fai un film sui poveri e/o su chi sacrifica la propria vita per alleviarne le sofferenze. Perché se vuoi qualcosa, per quel qualcosa combatti, ti sacrifichi, perché le uniche cose reali della vita le ottieni solo con la dedizione e il lavoro, non con un godimento inframmezzato di buonismo peloso. Altrimenti i poveri diventano giusto un incidenter tantum, uno dei vari colori di un film che sostanzialmente li ignora se non per la loro componente folkloristica e in fondo decorativa, una delle componenti più o meno gradevoli (tanto sono tutti buoni, bravi e innocui) di uno stile di vita che è il vero oggetto del tuo interesse. Anche perché così, giocoforza, tale scelta di vita - il precariato buonista - si fa modello mutantropico, forse inconsapevole e superficiale, nondimeno sembra portare felicità. Un'ennesima ode al disimpegno che troviamo francamente evitabile.  

Mah, a quando un film su Andrea Agnelli che gira le case occupate di Torino? O su Berlusconi nei centri sociali di Milano? Daiii, un'idea grandiosa!